XIX Periegesi – Diario Creta – Labirinti
30 agosto – 10 settembre 2019
I luoghi: Chania, Retimnos, Vresinas, Monastiraki, Matala, Kommos, Aghia Triada, Festos, Gortina, Cnossos, Heraklion, Galatá, Mallia, Grotta di Skotino, Dreros, Agios Nikolaos, Gourniá, Vassiliki, Ierapetra, Mochlos, Sitheia, Monastero di Moni Toplou, Petras, Kato Zakros, Palaikastro, Atene
Partecipanti: Alberto, Angela, Concetta, Cristina, Daniela, Franco, Giada, Giorgio, Isa, Laura, Mesa, Nora, Novella, Patrick, Primo, Riccardo, Sandro, Sara, Teresa, Virginia
Venerdì 30 agosto. Una parte consistente del gruppo si è incontrata all’aeroporto di Bergamo per il volo diretto su Chania, dove giunge in tarda serata, altri vi sono arrivati in mattinata da Roma. Tutti ospiti del bell’albergo Kydon, the Hearth City Hotel. Alcuni cenano sul lungomare con sardelle e horta, il primo passo per immergersi nello spirito delle nostre avventure greche. Poi una lunga passeggiata lungo il porto, tra locali allegramente affollati e artisti di strada, il lungo molo che termina con il faro, le vestigia veneziane che si mescolano con la sagoma degli edifici turchi.
Sabato 31 agosto. Rispondendo all’invito espresso più volte, garbatamente ma fermamente, ci troviamo tutti puntualissimi nella hall alle 9.00. Contenti di incontrarci di nuovo, abbracci, saluti, un corale benvenuto a Giada, nuova arrivata, mentre Patrick che doveva essere con lei ci raggiungerà tra qualche giorno.
L’aria è fresca e il cielo limpido, l’ideale per visitare le emergenze archeologiche dell’antica Kidonia, miticamente fondata dal re Kydon, forse figlio di Tagete o di un dio e della sorella di Minosse. Il nome – peraltro miceneo, Kudonija, come riportato in una iscrizione in lineare B mentre si ignora quale fosse l’appellativo minoico – è stato conservato fino al dominio veneziano, XIII sec.d.C, quando venne trasformato in Canea e quindi nell’attuale Chania. Sulla collina di Kastelli che si erge sul porto doveva sorgere un ampio insediamento risalente al primo periodo minoico di cui rimangono ampie tracce negli scavi situati nell’attuale piazza Santa Caterina. Come vedremo nella maggior parte dei palazzi che incontreremo nel corso del viaggio, le ricostruzioni che si sono avvicendate nel tempo hanno nascosto le strutture più antiche e i resti che osserviamo risalgono al tardo periodo minoico.
Le energie ancora valide del gruppo, ristorato dal riposo notturno e dall’ottima colazione in hotel, fanno sì che ci si avventuri in lunghe riflessioni che saranno i temi ricorrenti – insieme a molti altri – di questa periegesi: la definizione di Early, Middle e Late Minoan Period che coincidono più o meno con i periodi dell’Antica, Media e Tarda età del Bronzo, e come conciliarli con l’epoca pre, proto e neo-palaziale; il significato del palazzo minoico: luogo probabilmente di carattere pubblico, sede di cerimonie religiose e di scambi commerciali, non tempio e neanche propriamente palazzo, come chiamato da Evans nell’immagine vittoriana della sede del potere, ma nucleo amministrativo-commerciale-civile e religioso di una civiltà in cui élite dominante e ruolo sacerdotale si identificano; il mistero della scrittura lineare A, mai decifrata, di cui rimangono tavolette di argilla “cotte” e quindi rese resistenti dal fuoco degli incendi, che sembrano elencare solo merci e rendiconti, ma non esprimere una letteratura; l’assenza di segni di vita sull’isola in età paleolitica. E ancora: chi era la misteriosa potnia, la Signora del Palazzo? cosa ha determinato l’eclissi di una civiltà cosi avanzata e raffinata? quali civiltà hanno influenzato quella minoica e questa ha una sua valenza del tutto originale?
Per non perdersi del tutto prima ancora dell’ora di pranzo stabiliamo qualche punto di riferimento cronologico, confortati dal fatto che 1000 anni in più o in meno non sono rilevanti:
3600–1900 a.C: PERIODO PREPALAZIALE, prima della costruzione dei palazzi o Minoico Antico (divisibile in I, II, III) + Minoico Medio Ia, approssimativamente corrispondente all’Antica Età del Bronzo. Sorgono i primi agglomerati di Pyrgos e Vassiliki, si utilizza una scrittura pittografica, i luoghi di culto sono rappresentati dai santuari di montagna;
1900–1700 a.C: PERIODO PROTOPALAZIALE, periodo dei primi palazzi o Minoico Medio Ib, II, approssimativamente corrispondente alla Media Età del Bronzo I e II, viene costruito il palazzo di Cnosso, compare la ceramica di Kamares;
1700–1425 a.C: PERIODO NEOPALAZIALE, periodo dei nuovi palazzi o Minoico Medio III e Minoico Tardo I, approssimativamente corrispondente alla Media Età del Bronzo III e alla Tarda Età del Bronzo I vengono ricostruiti Festo e Cnosso, indotta da cause tuttora non accertate, si sviluppa la scrittura in Lineare A
1425–1170 a.C: PERIODO POSTPALAZIALE, periodo degli ultimi palazzi o Minoico Tardo, approssimativamente corrispondente alla Tarda Età del Bronzo II.
Ci avviamo quindi al Museo Archeologico di Chania, alloggiato nella bella chiesa cattolica del monastero veneziano di San Francesco risalente al XVI secolo e già trasformata in moschea, cinema e quindi magazzino. Vi sono raccolti reperti di era minoica provenienti da grotte – utilizzate come luoghi di sepoltura e di culto – e dagli scavi dell’antico palazzo che abbiamo appena visitato. Si tratta perlopiù di oggetti in argilla, innumerevoli figurine rappresentanti il toro, simbolo ricorrente dell’isola, forate in più punti come se dovessero essere tenute sospese, e giochi di bambini. Seguono reperti dal periodo miceneo a quello ellenistico e anche vetri e bei mosaici di epoca romana.
Più di tutto però colpisce un sigillo che riporta la sagoma dell’antica città di Kydon in cui si può osservare il porto e la collina di Kastelli su cui troneggia l’immagine del giovane dio, una figura affusolata, non minacciosa, dai lunghi capelli ricadenti sulle spalle a simboleggiare la giovane età, che regge a braccio teso uno scettro o un bastone. Incuranti delle custodi che proibiscono foto, cerchiamo di ingrandire l’immagine con il teleobiettivo del cellulare; sembra proprio che indossi un cappuccio a forma di testa di toro, ma nessun testo ne parla…
Dalla navata destra della chiesa-museo si accede a un accogliente giardinetto e all’ombra della magnolia si assiepano i periegeti.
Si legge, si discute: il giovane dio, le cui corna rappresentano il potere, è generato da un’entità femminile, una Grande Madre o la Montagna, punto d’unione tra terra e cielo, simboleggiata dalle colonne sempre presenti negli ipogei – ma anche dalle grandi cattedrali gotiche o dai minareti – che nasce, muore e rinasce, genera ed è generato, simbolo dei cicli naturali e dell’avvicendarsi delle stagioni.
Viene fatto notare che le immagini minoiche effigiano solo divinità femminili, le figure maschili appaiono come un giovane uomo o un giovane dio, paredro di una divinità femminile. Non sono comunque mai presenti, anche all’interno di luoghi identificati come “santuari”, immagini di culto. Citando Nannos Marinatos, si potrebbe ipotizzare che la divinità venisse impersonata da un sacerdote o una sacerdotessa e apparisse a distanza come “epifania visionaria estatica” a una élite privilegiata, costituita dalla classe dominante. È verosimile che un unico individuo racchiudesse in sé la figura del sacerdote e del re. Il termine Minosse in effetti non indica un personaggio in particolare, ma il re, letteralmente “il beato”. Il termine wanax, da cui anax, è di origine micenea, ma potrebbe indicare una figura presente nella civiltà minoica, simboleggiata dall’uomo toro, il capo politico e supremo sacerdote; egli stabilisce con precisione il tempo dei riti e, sebbene sia assistito da una casta sacerdotale, esercita un potere esclusivo e carismatico: solo lui è personalmente in contatto, attraverso riti misteriosi e segreti, con le divinità.
Procediamo un po’ sparpagliati alla visita del Museo Marittimo. Collocato all’interno della rocca veneziana da cui si gode un bel panorama sul golfo, ospita modelli di navi storiche dall’Età del Bronzo al periodo veneziano, cimeli e documenti della Guerra di Indipendenza di Creta e della II Guerra mondiale, la ricostruzione parziale di un sommergibile e schemi di battaglie navali famose come quella di Salamina. Non troviamo invece la ricostruzione di una nave minoica – motivo principale della visita- che si scoprirà poi essere alloggiata al porto, in uno degli antichi cantieri navali risalenti al dominio veneziano. Secondo quella che sarà la regola per tutto il viaggio, consumiamo il pranzo come e dove capita: chi si siede per un’insalata greca, chi per un gelato, chi mangia qualcosa camminando, chi salta del tutto. Alcuni visitano anche il grazioso Museo Bizantino, posto all’interno di una piccola chiesa ai margini dell’intrico di stradine della città vecchia, che raccoglie icone e affreschi dal X al XIII secolo d.C.
Verso le 18.00 ci riuniamo nella hall dell’hotel per una conversazione comune, uno di quegli scambi di idee lungo vie di pensiero non sempre coerenti e con agganci storici non del tutto documentati che lasciano spazio a ipotesi e suggestioni tanto care ai periegeti. Conversazioni simposiali, che un tempo si svolgevano intorno ai tavoli di taverne, possibilmente in riva al mare, tra tzaziki, octopus, orate e dolmades bevendo retsina o birra greca o vini scelti accuratamente da Franco, il nostro sommelier ufficiale. Ma questa volta siamo davvero troppi, cenare tutti insieme è impensabile e soprattutto impossibile mantenere una conversazione, animata per giunta. Non è facile cambiare le abitudini, soprattutto quelle che hanno rivestito nel tempo un ché di rituale, ma dobbiamo adattarci. Dunque ceneremo in piccoli gruppi, ma ci riuniremo prima di cena in nome del vero spirito periegetico.
Ben vestiti e rinfrescati, incuranti degli avventori dell’hotel, ci accomodiamo su confortevoli divanetti e tentiamo di riprendere le fila delle origini di Creta, peraltro alquanto misteriose. Riccardo assume a pieno titolo il ruolo di conduttore: in primo luogo i minoici non sono greci e non hanno nulla a che fare con il ceppo ariano, non erano di origine semitica né indoeuropea, ma molto probabilmente venivano dall’Asia Minore, in particolare dall’Anatolia. Come sottolinea Primo, anche studi di antropologia e genetica testimoniano le differenze somatiche e genetiche tra minoici e micenei; qui Riccardo vorrebbe azzardare l’ipotesi di una origine protofenicia dei cretesi, ma viene energicamente messo a tacere. Altri del gruppo tentano di riportare la discussione in una cornice storica: le prime tracce di vita a Creta risalgono al 6000 circa a.C, quindi all’età neolitica, e testimoniano l’uso dell’agricoltura e dell’allevamento, di strumenti di pietra e osso, ma non della ceramica. La civiltà minoica prende a svilupparsi dal 3000 circa – quando sulle isole dell’Egeo fioriva e si consolidava la civiltà cicladica, oggetto della bellissima periegesi 2018 -, probabilmente attraverso ondate migratorie successive provenienti dalla vicina Asia Minore, con una graduale assimilazione dei nuovi arrivati alle popolazioni già insediate e progressiva estensione a gran parte dell’isola, peraltro dotata di clima mite, terra fertile e invidiabile posizione geografica, vero crocevia tra Europa, Asia e Africa. È in quest’epoca che appare la ceramica, si sviluppa la navigazione che porterà alla sconfitta dei pirati del mare e alla nascita della “talassocrazia minoica”, che darà luogo nel periodo più fulgido, intorno al 2000 a.C alla costituzione di varie colonie, tra cui Philakopi che abbiamo visitato a Milos nella scorsa periegesi. Ma improvvisamente, sull’onda di un tipico volo pindarico periegetico, si passa a parlare del mitico re Minosse e in particolare della sua morte, occorsa in Sicilia, almeno secondo il racconto di Diodoro Siculo. Minosse sdegnato nei confronti di Dedalo il cui labirinto non si era rivelato inviolabile, almeno per Teseo, e che dopo l’uccisione del Minotauro aveva abbandonato Creta in volo, lo cerca in lungo e in largo per vendicarsi. Venuto a scoprire che si è rifugiato presso il Re Sicano Cocalo, si reca in Sicilia e pone al re un quesito: come si può far passare un filo in una conchiglia spiraliforme? Il re, chiesto aiuto al geniale architetto, risolve il problema: semplice, attaccando un filo a una formica e ponendo sul fondo della conchiglia una goccia di miele; la formica attratta dal miele porterà con sé il filo fino in fondo alla spirale. Solo Dedalo poteva dare una simile risposta, Minosse ha la conferma che si nasconde presso Cocalo e pretende che gli sia consegnato. Ma nell’attesa viene indotto dalle tre giovani e belle figlie del re a fare un bagno caldo nelle acque termali lì vicino. Impossibile rifiutare, ma le tre dopo averlo spogliato, adulato, allettato con piacevoli promesse e forse stordito con magiche pozioni, lo fanno immergere nell’acqua ben calda e ve lo tengono dentro versando acqua sempre più bollente fino a ucciderlo o – secondo un’altra versione – lo coprono di pece bollente, con lo stesso risultato. Minosse è morto e Dedalo è salvo, ma ne scaturisce una guerra minoico-sicula che finirà, dopo vari anni, con la resa dei cretesi che abbandoneranno l’assedio e torneranno in patria, non prima di aver fondato sulle coste siciliane la città di Minoa. Alla leggenda non manca un fondo di verità: vi fu effettivamente una guerra tra sicani e cretesi e non lontano da Sciacca vi è un antico complesso termale.
Si è fatto tardi, usciamo alla spicciolata, alcuni si sono organizzati altri rimangono un po’ spaesati e si annettono a quello o a quell’altro gruppo. A Creta, contrariamente alla tradizione greca, a fine pasto vengono serviti come omaggio dolci cremosi e sostanziosi. Siamo contenti della nostra prima giornata a Creta.
Domenica 1 settembre. Puntuali per l’incontro con il pullmino e con l’autista che ci guiderà nei prossimi giorni. In realtà è lo stesso che ha prelevato molti di noi all’arrivo in aeroporto. Il mezzo è in buone condizioni, ma i posti sono esattamente 20, come i passeggeri. Chi ha particolari esigenze di leadership (come Riccardo e Primo) o di corporatura o di mal d’auto sceglie i posti. Gli altri si accalcano sul fondo. Immediato emerge l’antico dissidio sui veicoli della Periegesi: l’aria condizionata. Mani in genere maschili si protendono aprendo le bocchette a tutta manetta, altre, perlopiù femminili, si affrettano a impugnare giacche, sciarpe e cappelli. Si solleva un sordo brontolio, quelli delle prime fila hanno freddo, quelli in fondo sono visibilmente sull’orlo di un colpo di calore. Nico, questo il nome dell’autista, è un uomo sui 60 anni, corporatura massiccia, ma non sgradevole, capigliatura folta e argentea, occhi di un gelido azzurro, insolito in Grecia. Si mostrerà fin dall’inizio scortese e molto poco disponibile, a tratti tirannico. Data l’indole psicomitologica dei viaggiatori, verranno avanzate varie ipotesi di possibili psicopatologie che giustifichino siffatto malanimo.
Siamo diretti a Retimnos. La strada corre lungo la costa verso est, poi sale nell’interno e di nuovo sul mare seguendo la baia di Almiros, in un bellissimo panorama. Si discute dell’opportunità di deviare dal cammino alla ricerca di grotte suggestive, come consigliato da amici di Nora e Riccardo, ma l’ipotesi viene abbandonata. L’ambiente raccolto del pullmino facilita gli scambi di idee e durante il viaggio in diversi si avvicenderanno al microfono. Riccardo riprende il tema a lui caro della visione estatica facilitata dall’uso di sostanze stupefacenti, dall’idromele – bevanda antichissima derivata dalla fermentazione spontanea del miele, la bevanda degli dèi secondo la mitologia greca, ma utilizzata dai pellerossa e anche dai Vichinghi, come sottolinea Cristina citando il racconto norreno in cui si narra dell’idromele di poesia di cui si impossessò Odino rubandolo ai Giganti -, ai fiori di papavero cari a Dioniso e Demetra e impiegati nella celebrazione dei misteri eleusini, alla dimetiltriptamina contenuta in molte piante e ampiamente usata nel Sud America, per non parlare della bufalina, veleno di rospo capace di indurre allucinazioni simili a quelle provocate dalla LSD, e da qui facili associazioni con le pozioni delle streghe, i filtri di Medea e la principessa che, evidentemente preda di un’ allucinazione, baciando il rospo lo scambia per un principe. Sandro interviene citando “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”, il testo nel quale nel 1976 lo psicologo statunitense James Jaynes espone la sua teoria secondo la quale fino a circa il 1000 a.C non esistesse negli uomini una coscienza, ma la conoscenza avvenisse prevalentemente attraverso l’emisfero cerebrale destro, non analitico, ma sede di un pensiero intuitivo che crede non a quel che è, ma a quello che sembra, in cui risuonano non espresse voci interiori, interpretate come “voci degli dèi”; una forma di schizofrenia primitiva, come secondo Jaynes documentato da testimonianze letterarie e archeologiche, alla quale tuttavia la mente dell’uomo moderno non più bicamerale torna nella psicopatologia, nella possessione, nella poesia. Ipotesi affascinante, non sostenuta da basi neurobiologiche, ma plausibile se si applica l’ontogenesi alla filogenesi: menti primitive analoghe alle menti suggestionabili dei piccoli bambini. Riccardo cita Hillman “la psiche personalizza, drammatizza, patologizza” e apre sul tema del sogno come momento di rivelazione di dimensioni psichiche nascoste come ampiamente accettato da diverse correnti psicoanalitiche. Prima che la conversazione scivoli su derive incontrollabili, Daniela inquadra il mito nell’ambito di fonti storico-letterarie più precise. Ci parla di Nonno di Panopoli, il colto letterato nato in Egitto nel V secolo d.C, nella città famosa per gli eremiti, forse cristiano poi convertito al paganesimo o viceversa, autore di una non stilisticamente apprezzabile Parafrasi del Vangelo secondo San Giovanni che fu commentata da Cirillo d’Alessandria, e soprattutto della gigantesca opera “Le Dionisiache” in cui delinea tre diverse figure di Dioniso: il primo Zagreo, figlio di Persefone, il secondo Bromio, figlio di Semele e il terzo, Iacco, figlio di Demetra. Di Zagreo e del suo coinvolgimento nei misteri orfici abbiamo a lungo parlato nella XV Periegesi in Tracia: Zagreo era figlio di Persefone e di Ade, che si era unito a lei in forma di serpente; la predilezione di Zeus nei suoi confronti scatenò l’ira della sempre gelosa Era che ingiunse ai Titani di eliminarlo. Questi, con i volti imbiancati – qualcosa di questo resta in tante danze tribali – attirarono il fanciullino dalle piccole corna – di nuovo simbolo di potere? – con giochi (una trottola, una palla, uno specchio ed un astragalo) che appaiono nelle raffigurazioni del dio, e quindi lo fecero a pezzi e lo divorarono. I Titani furono fulminati dall’ira di Zeus e dalle loro ceneri – che tuttavia contenevano anche il corpo del giovane dio – furono creati gli uomini, impasto di umano e divino, di buono e di malvagio (e quindi la necessità nell’orfismo di purificare l’anima attraverso pratiche rituali per ritrovare la componete divina). Atena tuttavia strappò il cuore di Zagreo e lo portò a Zeus, che lo fece inghiottire a Semele che diede alla luce Dioniso. Il mito riecheggia il ciclo di nascita e morte, l’avvicendarsi delle stagioni, il legame con Demetra dea delle messi – infatti Iacco è evocato nei riti eleusini – ed è evidente l’accostamento con il Cristianesimo, dio nato e risorto, e con l’Eucarestia, cibarsi con il corpo del dio. Primo sottolinea come l’Ultima Cena evochi il simposio in cui si condivide il pasto del dio. Come dice Primo: il Dionisismo apre alla religione orientale e al cristianesimo e segna la fine del Mondo Antico. Riccardo riprende il tema del vino: Dioniso nel suo peregrinare si ferma presso un pastore e ne accetta il latte, ma gli lascia il vino che “scioglie gli affanni”. Secondo Giorgio Colli la vinificazione portata da Dioniso segna l’inizio della civilizzazione; il primo miracolo di Gesù alle nozze di Cana è la trasformazione di acqua in vino… Sempre secondo Riccardo il proibizionismo demonizza la dimensione dionisiaca; Dioniso emarginato dalla città, bussa alle porte, Tebe lo rifiuta, chiudendosi, ma Atene le apre e lo accoglie. Il teatro è il luogo in cui la fascinazione dionisiaca può essere “contenuta” e celebrata in modo rituale, come ne Le Baccanti di Euripide.
Così favoleggiando – ma sempre gettando un’occhiata alla bella costa che scorre sotto la strada – siamo giunti a Retimno, ridente cittadina sul mare, fino agli anni ‘70 ancora priva di corrente elettrica, ma ora moderna e sede di una Università in cui un’allieva di Daniela ha seguito un corso sulla scrittura Lineare A, quando si dice il destino…
La nostra mèta non poteva essere altro che il Museo archeologico, allocato nella piccola basilica di Agios Fragiskos e non, come fino al 2015, nelle ex-prigioni della fortezza veneziana. Vi sono raccolti reperti provenienti da scavi effettuati nella zona che non hanno messo in luce palazzi minoici, ma dimore verosimilmente di notabili. Siamo interessati soprattutto a statuine di argilla provenienti dagli scavi di Monastiraki dove ci recheremo immediatamente dopo e a un sarcofago proveniente dalla necropoli di Armeni, dove sono state rinvenute diverse tombe a tolos che evidentemente sono di origine minoica e quindi adottate dai micenei. Il sarcofago risale al 1400 a.C. porta la raffigurazione del labris, la doppia ascia simbolo minoico ricorrente, e la rappresentazione del defunto in veste di cacciatore, con accanto una barca – la traversata verso l’al di là, oltre il mare? Ci attardiamo sui mosaici romani e su qualche bel capitello veneziano. La città è molto ricca di edifici sia ottomani che veneziani, ma non abbiamo tempo per soffermarci.
Solo un rapido sguardo alla piazza adiacente al museo dove si erge la Moschea – ora sede di una scuola turca – con l’alto minareto e, di fronte, un monumento con figure afflitte di cui non riusciamo a comprendere l’iscrizione.
Ci penseranno Teresa e Isa che se la fanno spiegare da una signora del luogo: è un monumento dedicato a tutti i profughi.
Risaliti in pullman ci dirigiamo verso il santuario rupestre di Vresinas, i cui scavi prima negli anni ‘70 e poi nei primi anni del 2000 hanno portato alla luce un gran numero di figurine e vasi. È un luogo di per sé non abitato, ma vicino a centri abitati. Ciò nonostante il nostro autista non è in grado di trovarlo e mostra segni di contrarietà. Abbandoniamo l’idea di insistere e proseguiamo per Monastiraki. Lungo il tragitto si leggono cose sui santuari rupestri, un fenomeno quasi esclusivo della civiltà minoica che allude a luoghi di culto situati in zone elevate, spesso ventose e con un ampio panorama. L’opera dell’uomo è limitata a qualche terrazzamento e a rendere più facile il radunarsi di molte persone per celebrare riti all’aria aperta, ma forse anche cerimonie di tipo sociale e amministrativo. Gli oggetti sono in gran numero rispondenti a tecniche diverse, segno che i visitatori erano molto numerosi e provenienti da luoghi diversi, a testimoniare la rilevanza simbolica del luogo. Il reperimento di ossa bruciate e tracce di cenere fa ipotizzare che le cerimonie comprendessero sacrifici notturni (anche umani?), banchetti e libagioni. La presenza di figurine e vasi grossolanamente danneggiati rimane enigmatica, come misteriosa rimane la spiegazione da attribuire alle figurine decapitate di Keros, Koufunissi, dove siamo stati l’anno scorso. Gli animali sono quasi sempre bovini, a volte cavi. I frammenti riguardano soprattutto gambe e corna e poi teste, tronchi e braccia. Benché in genere considerate offerte votive da porre all’interno di contesti rituali, non è chiaro il loro significato né la loro esplosione numerica, né si comprende come questo fenomeno sia sorto in un determinato periodo e poi sia scomparso dopo alcuni secoli né è chiara la relazione tra santuari rupestri e il sistema amministrativo centralizzato rappresentato dai palazzi. Spesso sorgono vicino a città e risalgono soprattutto al periodo protopalaziale, ma altri – come appunto Vrysinas – appartengono al periodo neo-palaziale, al culmine della civiltà minoica. Vrysinas risulta abitata fin dal 4000 a.C, ma i reperti di figurine umane e animali e di vasellame infranto appartengono al Minoico Medio con vasi riccamente decorati con applicazioni di stucco rappresentanti rocce, serpenti arrotolati, uccelli appollaiati, mentre al periodo neo-palaziale appartiene una tipologia di vasellame più omogeneo, tipicamente le tazze coniche. Presenze umane sono testimoniate anche nel Tardo Minoico, legato alla presenza micenea, e nei periodi successivi, ma non è chiaro se il luogo avesse conservato il suo significato cultuale. Primo illustra anche altre simbologie sacre legate al santuario rupestre, luogo dove si consumava le ierogamia tra il giovane dio e la montagna, sulla cui cima si accendevano falò che tenevano vivo il dio. La montagna evoca la Grande Madre, e l’importanza attribuita alla figura femminile trova eco nelle parole che Nausica rivolge a Ulisse prima di condurlo alla reggia dei Feaci: “abbraccia le ginocchia della regina”.
La strada sale tortuosa fin sul passo, poi scende nella valle dell’Amari, dove ebbe luogo la sacra unione tra Demetra e il Dattilo Iason da cui nacque Pluto, la ricchezza.
Giungiamo al santuario di Monastiraki accolti dalla gentile bigliettaia che ci mostra il ponderoso resoconto degli scavi condotti da archeologi italiani e ci offre pietosa delle caramelle. Ci sediamo all’ombra di una tettoia e si dà il via alle letture: siamo di fronte a uno dei più importanti siti archeologici del periodo Minoico Medio, protopalaziale, distrutto verosimilmente intorno al 1700 a.C, probabilmente da un incendio – spontaneo o scatenato da un terremoto -, e non più ricostruito, quindi le emergenze appartengono a un periodo ben definito e non sono contaminate da edifici successivi. I primi scavi furono condotti illegalmente dalle truppe di occupazione tedesche della Wehrmacht nel 1942. Scavi successivi sono stati condotti da archeologi greci e appunto italiani. Sembra che si tratti di un nucleo palaziale, ma data la notevole estensione del sito – 300.000 metri quadrati – scavi successivi potrebbero portare alla luce un insediamento abitato circostante. Il gran numero di sigilli trovati negli scavi testimonia che il luogo rivestiva un importante ruolo amministrativo. Sono emerse tre ali, la Sud conteneva un archivio di sigilli, decorato con stucchi e il modellino di un santuario di argilla con una veranda a due piani sovrastata dalle corna di consacrazione; l’ala Est comprende un enorme complesso con almeno 90 stanze, comprensive di magazzini e laboratori, uffici e quartieri amministrativi, stanze destinate ad attività rituali come dimostrato dalle numerose tazze a forma di cono qui trovate, un ampio archivio contenente 900 sigilli e una struttura di roccia, innalzata rispetto al terreno, identificata come luogo di culto, con pareti stuccate. Qui è stata reperita una coppia di figurine che rappresenta una donna che allatta un giovane adulto; benché la testa del giovane sia andata perduta se ne intuisce la posizione. L’immagine è evocativa dell’Egitto dove vi sono delle raffigurazioni del faraone allattato da Isis o da un’altra dea. L’ala Ovest presenta un edificio con mura ciclopiche, pareti e pavimenti rivestiti con stucchi di gesso, comprendente due cortili, un ampio terrazzamento e un terzo archivio. Ci sparpagliamo nell’ampio sito, passeggiando tra gli scavi: il cielo è terso e l’aria raffrescata dalla brezza, intorno il panorama sulla vallata e il silenzio. È l’atmosfera che ci coglie spesso nei nostri viaggi in Grecia, la sensazione che i luoghi “parlino” al di là di quello che mostrano.
Torniamo sul pullman ed è ormai pomeriggio. Si accende un’ulteriore discussione – questa più sentita – sull’opportunità o no di fermarsi per il pranzo. Come per l’aria condizionata, chi è a digiuno opta per una sosta, chi ha provveduto a portare con sé provviste ed ha potuto tamponare i morsi della fame propone di continuare. Riprendiamo il cammino verso Matala, scrutando la strada per scorgere taverne o simili, ma sono chiuse o le avvistiamo troppo tardi. Alla fine ci fermiamo in un piccolo locale con una terrazza esposta ad ovest, in pieno sole e ognuno si rifocilla come può: formaggio, olive, yogurt, miele, gelati.
Riprendiamo la strada per Matala, sul Mare Libico e arriviamo all’hotel dotato di piscina. Riccardo, Primo, Concetta e Laura fanno puntata alla bella spiaggia dalle grandi grotte, già frequentata negli anni ‘60-’70 del XX secolo dai figli dei fiori, alcuni illustri come Bob Dylan e Cat Stevens. Il mare è agitato e tira vento, ci immergiamo velocemente e restiamo a chiacchierare mentre il sole tramonta. Ceniamo come sempre alla spicciolata nei numerosi locali della cittadina. Ancora un’intensa giornata, ci meritiamo un bel sonno.
Lunedì 2 settembre. Colazione in hotel e poi a bordo. Ci dirigiamo a Kommos alla ricerca delle emergenze dell’antico porto di Festo. Anche in questa occasione l’autista, incurante dell’età media del gruppo, ci lascia a una certa distanza dal sito, pur essendo disponibili facili e prossimi parcheggi. Costeggiamo il recinto degli scavi e all’improvviso ci appare una spiaggia bellissima e, data l’ora, deserta. Senza dire una parola, Riccardo che è in testa alla fila si libera con velocità insospettabile degli indumenti e si lancia in mare. Sara e Laura seguono rapide e poi gli altri. L’acqua è limpida, fresca, il fondale finemente sabbioso; siamo presi da una euforia infantile, come a scuola quando senza preavviso manca un professore. Restiamo a lungo nel Mare Libico, le figure femminili si sentono fanciulle e inneggiano alle “bionde fanciulle libiche” evocate da Daniela che ci intrattiene con racconti sul piccolo Zeus, nascosto nella grotta del monte Ida, mentre i Cureti coprono il suo pianto battendo forte sugli scudi. Riccardo intanto, ispirato, scrive come un forsennato, posseduto dal dio, all’ombra.
Rivestitici a malincuore, sbirciamo gli scavi attraverso la rete più per senso del dovere che per vero interesse e risaliamo in pullman, non prima che l’antipatico autista abbia severamente rampognato Daniela per i suoi sandali insabbiati.
Arriviamo al sito di Aghia Triada, silenzioso e poco visitato. Gli scavi furono intrapresi all’inizio del 1900 dagli italiani Federico Halbherr e Luigi Pernier – che procedettero lentamente e cautamente, mettendo in salvo molti reperti di grande valore e bellezza, primo fra tutti il famoso sarcofago, ora conservato al museo di Heraklion – e quindi negli anni ‘70 dalla Scuola Archeologica Italiana di Atene. Ci sediamo all’ingresso su panchine e muretti. Gli scavi si stendono sotto di noi e lo sguardo può spingersi fino all’orizzonte dove si staglia il monte Ida. La giornata è cosi limpida che possiamo vedere quasi sotto la vetta la grotta di Kamares, luogo cultuale dove sono state ritrovate le ceramiche che da questa prendono il nome. Ascoltiamo Primo: l’insediamento risale probabilmente alla fine del neolitico, e sicuramente era presente nel Primo Minoico, come testimoniato dalla presenza di due tombe a tolos tipiche del periodo pre-palaziale, si sviluppò nel Medio Minoico, ma probabilmente si espanse alle dimensioni attuali nel periodo palaziale. La Villa Reale fu edificata tra il Medio e il Tardo periodo minoico, intorno al 1550 a.C. e fu distrutta nel 1450, come i palazzi di Cnosso e di Festo, ma non vi furono sovrapposti altri edifici fino al periodo miceneo. Si ipotizza che sia stata una residenza estiva del re o di altri notabili di Festo o la sede di un signore locale. Ha la forma inusuale di una L con edifici che si sviluppano su due lati di un cortile pavimentato, chiamato “Il Cortile del Santuario” e non su quattro, come il classico palazzo minoico. Gli edifici più importanti sono collocati nell’angolo di congiunzione dei due bracci. Sono stati identificati appartamenti, fonti di luce centrali, santuari, magazzini, laboratori, scale, portici, cortili, decorazioni con stucchi di gesso. Importanti i reperti in mostra al museo di Heraklion come sigilli indicativi della locale burocrazia, la cosiddetta Coppa del Capitano, il vaso dei Boxer e il famoso sarcofago su cui sono raffigurati riti funerari. La villa e un edificio chiamato la Casa del Lebete ospitavano il più grande archivio di iscrizioni in Lineare A su tavolette, ma anche su rondelle e noduli, conservati proprio grazie al fuoco che li ha “cotti” e resi resistenti. La maggior parte delle iscrizioni registra elenchi di materie prime come fichi, olio, vino, grano e avena. La villa sembra quindi svolgere un’attività simile a quella del palazzo, innanzitutto una funzione di stoccaggio e registrazione di merci, ma destinate a quale scopo? Una redistribuzione del surplus a favore della popolazione? Per commerci? Sembra tuttavia che la quantità accumulata non fosse di entità tale da rendere plausibile una distribuzione allargata alla popolazione. E il palazzo – per seguire la denominazione non del tutto felice di Evans – rappresenta anche la sede del sovrano? O probabilmente era un luogo dove si svolgevano cerimonie pubbliche e religiose, celebrate da un re/sacerdote, come lasciano intendere gli ampi cortili? Qui prevalgono reperti del periodo neo-palaziale, contrariamente a Festo, in cui abbondano invece quelli risalenti al periodo palaziale; è probabile che il sito di Aghia Triada abbia raggiunto il massimo splendore dopo Festo, e forse quando questa cominciava a declinare. A nord della villa si stende la città di cui rimangono la necropoli, una agorà lunga e stretta risalente al periodo post-palaziale, con otto negozi e basi di colonne e pilastri alternati. Le case sul lato ovest appartengono a entrambi i periodi neo- e post-palaziale. Sul lato nord della villa si trovano i sistemi di irrigazione, un megaron di tipo miceneo, forse la residenza del governante acheo, e un possibile santuario.
Passeggiamo in lungo e in largo, poi sediamo sulle panchine all’ombra. La solita brezza ci rinfresca e fa stormire le foglie. Siamo tutti pervasi da una grande pace. La minuscola chiesina di Aghios Georgios Galatas del 1300, che si staglia sullo sfondo, sulle cui pareti rimangono frammenti di affreschi, probabilmente i più antichi dello stile Paleologus a Creta, contribuisce alla sacralità del luogo. Non per nulla chiese, basiliche, moschee, santuari sorgono su siti “sacri”, fossero anche solo una fonte o un boschetto. Senza parlare, siamo uniti in questo sentire comune che non richiede parole, riecheggiano dentro quelle di Fermor “…Una magica pace vive nelle rovine dei templi greci.… la vita, a lasciarla svolgere senza impacci e costrizioni e ricerche di soluzioni aliene, potrebbe essere illimitatamente felice.”
Memori dell’esperienza di ieri, decidiamo di fermarci per pranzo. Ci dirigiamo a Vori, nella ampia e fertile valle di Messara, un villaggio che ospita un museo di Etnologia Cretese, unanimemente considerato imperdibile da tutte le guide e sostenuto da fondi della Comunità Europea e del Ministero della Cultura Greco. Raccoglie attrezzi agricoli impiegati dal neolitico al XX secolo, utensili da cucina, strumenti di lavoro di artigiani, telai, stoffe e tessuti ricamati, capi d’abbigliamento, paramenti sacri, strumenti musicali usati dai guardiani di bestiame. Come d’accordo ci ritroviamo sulla piazza dove all’ombra di platani ci sono tavolini di due bar, il primo dall’apparenza più accogliente, il secondo decisamente smandruppato. Laura, tratta in inganno dall’assenza di divisioni evidenti tra i due, prende posto al secondo con Franco e Primo, poi sopraggiungono Novella – che si limita a consumare una birra – e Angela, affettuosamente ma fermamente redarguita dall’autoritario consorte perché inopinatamente attardatasi al museo con Isa, scambiandosi donnesche esperienze di tessitura. Dubbiosa e incerta Laura vorrebbe traslocare al ristorante vicino, ma la sentenza senza appello di Sandro la rassicura: “Tutto quello che abbiamo mangiato è cattivo”. Riparerà su una tradizionale insalata greca con pomodori che si riveleranno squisiti, mai più gustati di simili per tutto il viaggio. Come sempre di ottimo umore quando i livelli di glicemia si innalzano, i Periegeti riprendono la strada.
Arriviamo a Festo nella luce dorata del pomeriggio. Il sito è molto vasto, come si confà al ruolo di importante centro amministrativo della valle del Messara che rivestì in epoca palaziale (1900-1700 a.c.), benché l’insediamento fosse abitato fin dal neolitico (4000 a.C) e fosse divenuto un centro minoico già in epoca pre-palaziale (3500-2000 a.C). Il mito vuole che la città fosse fondata da Radamante, figlio di Zeus e di Europa, fratello di Minosse e che gli fosse toccata quando Minosse divise il regno di Asterio. Secondo un’altra leggenda Radamante, famoso per le sue capacità legislative, fu inviato qui da Minosse per promulgare leggi. Come Cnosso, Festo fu distrutta nel 1450 a.C, e ricostruita, ma lentamente e in tono minore, con edifici più piccoli in cui non sono stati trovati affreschi. Divenne poi una città-stato dell’antica Grecia e sulla sommità della collina venne eretta l’acropoli e rivisse un periodo di splendore in età ellenistica.
Gli scavi, come ad Aghia Triada, furono intrapresi all’inizio del 1900 sotto la guida dell’archeologo italiano Federico Halbherr. Il vecchio palazzo, costruito su tre livelli, con ampie terrazze, cortili e strade di processione, aveva il piano terra orientato da est a ovest, mentre le stanze del piano superiore erano orientate da nord a sud. L’ampia scalinata d’ingresso era collocata a sud, tra le due ali del palazzo e probabilmente portava direttamente al cortile centrale, mentre diverse altre strutture simmetriche erano edificate alla facciata ovest cui si accedeva attraverso varie entrate, una sorta di labirinto attraverso stanze e stanzini con pareti stuccate, resi più angusti dalla presenza sui lati di panchine e nicchie. Alcune stanze di questa ala erano usate come magazzini per vasellame e prodotti agricoli, altre per preparare il cibo e altre come santuario. Risalgono al periodo palaziale il Disco di Festo, sigilli e tavolette in Lineare A. Crollato due volte e ogni volta ricostruito il palazzo presenta tre distinte fasi di costruzione. Alla distruzione definitiva nel 1700 segui la ricostruzione di un nuovo palazzo che fortunatamente non ha occultato del tutto le vestigia del precedente, che era stato coperto per livellare il terreno per la nuova costruzione. Il palazzo nuovo risale molto probabilmente alla fine del periodo neo-palaziale e copre una superficie più piccola di quello del vecchio palazzo, non vi sono affreschi né sono stati trovati sigilli o tavolette, segno della decadenza del palazzo cui corrispondeva l’apogeo del sito di Aghia Triada. La visita del sito è suggestiva, non intima come quella di Aghia Triada, ma piena di fascino, evocativa di una civiltà che non conosciamo, ma che ci pace immaginare pacifica e laboriosa, non segnata da caste. Il teatro suggerisce spettacoli pubblici, cerimonie religiose, sacrifici di tori. Il grande cortile centrale – nucleo della vita palaziale – fiancheggiato su entrambi i lati da portici su colonne e pilastri alternati su cui si aprono varie stanze, alcune con panchine, fa ipotizzare che qui si svolgessero cerimonie o raduni cui si poteva assistere all’ombra dei portici, o seduti su appositi sedili o anche dagli edifici circostanti, in un’atmosfera di ampia partecipazione. Forse anche la scala monumentale che dava accesso all’ala ovest del palazzo poteva in alcune occasioni essere utilizzata come teatro e non rappresentare l’ingresso principale, che generalmente era collocato a sud. I magazzini ospitano enormi pithoi di argilla, alcuni decorati, destinati allo stivaggio delle merci. Nell’ala nord-est erano ospitati i laboratori degli artigiani e in quella sud una cripta con pilastro, forse oggetto di culto o forse a segnare un luogo di culto. La sacralità dell’ala ovest è testimoniata anche dalla presenza di due bacini lustrali, di vasi di culto, tazze coniche, figurine, incisioni con la forma della doppia ascia, in linea con la distinzione all’interno del palazzo minoico dell’ala ovest destinata alla vita religiosa e amministrativa e dell’ala est, adibita alla vita familiare. Ma all’interno del palazzo esisteva una vita familiare? Probabilmente no. Ma ci diverte assecondare l’ingenua attribuzione di Evans che identifica gli appartamenti del re – che guardano il massiccio imponente del Monte Ida – quelli più piccoli della regina, connessi ai precedenti da una scala e perfino quelli del principino. Risaliamo verso l’uscita e non possiamo non ammirare il panorama circostante, la valle ampia, il monte Ida, il tramonto incipiente e la suggestione del sito, ormai privo di visitatori. Torniamo a Matala. È stata una giornata intensa, con molte emozioni. Non parliamo molto, mentre torniamo a Matala. Per cena solita frammentazione. Una sapiente illuminazione dà alle grotte un bagliore rossastro e sembra di sentire in lontananza le note di Morning has broken.
Martedì 3 settembre. Dopo un tragitto di poco meno di 40 Km in direzione nord-est giungiamo a Gortina, un sito archeologico molto vasto in cui ha a lungo lavorato la Scuola Archeologica Italiana e che ha vestigia minoiche, ellenistiche romane, bizantine, veneziane.
Ci accolgono delle sorveglianti piuttosto scorbutiche, che sconsigliano fortemente di avventurarci all’acropoli, pena cadute rovinose e forse la morte; controllano che non si scattino troppe foto e guardano con sospetto il gruppo stretto intorno a Primo, che potrebbe facilmente essere scambiato per una guida abusiva, figura fortemente invisa da queste parti. Ci fermiamo subito ai resti della chiesa di Aghios Titos, la prima chiesa cristiana a Creta, risalente al VI sec e dedicata a Tito, seguace di Paolo e primo vescovo dell’isola, distrutta dagli Arabi intorno al 900. Mentre ammiriamo le rovine della chiesa, imponente nella sua essenzialità, il discorso scivola sul labirinto di Gortina, una enorme cava di pietra, un’antica grotta, forse un vero e proprio labirinto le cui pareti sono state incise con migliaia di iscrizioni che furono oggetto di studio e che fu poi in gran parte distrutta da una esplosione durante la Seconda Guerra Mondiale. Non si sa con quale associazione mentale si passa a parlare del significato sacro delle piante e del loro essere oggetti di culto. D’altra parte gli alberi affondano le radici nella terra e svettano verso il cielo, come la montagna, le colonne, le chiese, nel tentativo di colmare la distanza tra umano e divino. Si cita il bel libro “La Mitologia degli Alberi” di Jacques Bross, la presenza di piante specifiche a segnare un luogo o una divinità. Viene in mente l’oracolo che parla attraverso lo stormire delle foglie della quercia di Dodona, la palma all’ombra della quale Latona dette alla luce Artemide e Apollo, l’albero proibito dell’Eden, la statuetta ritrovata ad Aghia Triada di un’altalena che ondeggia tra due rami a forma di corna, del suicidio per impiccagione, sembra più tipicamente femminile, come evocato dal mito che narra della morte per impiccagione di Elena, Arianna, Giocasta.
Sull’onda dendrologica e seguendo Teofrasto ci spostiamo alla ricerca del mitico platano che assistette discreto alle nozze tra Zeus ed Europa e che da allora mantiene sempre folte e verdi le sue foglie, come dono del dio.
Come nel racconto di Esiodo
“si dice che a Creta vi fosse un platano presso a una fonte nella regione di Gordina che non perde le foglie – raccontano che Zeus si unì sotto questo (platano) con Europa – vicino tutti persero e foglie”.
In realtà l’albero in questione non appare fronzuto, ma ci sediamo poco lontano, su comodi muretti, all’ombra di lecci e sprofondiamo dolcemente nel mito.
Dunque il dio si invaghì di Europa – il cui nome forse vuol dire dai grandi occhi o dal viso largo – mentre la bella figlia di Agenore, il re di Tiro figlio di Poseidone e di Libia, e quindi sorella di Cadmo fondatore di Tebe, raccoglieva fiori sulla spiaggia fenicia. Trasformatosi in un magnifico toro bianco la invitò a salirgli in groppa.
Echeggiando i versi di Ovidio dalle Metamorfosi:
Lo contempla la figlia di Agenore,
come è bello, e non minaccia battaglie;
ma, per quanto mite, ha paura a toccarlo dapprima,
poi gli si accosta e porge fiori davanti al candido muso.
Ne gode l’innamorato e, in attesa del piacere che spera,
le bacia le mani. A stento riesce a rinviare il resto,
e ora scherza e le salta intorno sull’erba verde,
ora stende il candido fianco sulla sabbia bionda e,
tolto un po’ alla volta il timore, le offre il petto
da toccare con la mano virginea, e le corna
da inghirlandare di fiori freschi.
La figlia del re osa anche, senza sapere chi è, sedergli in groppa
Le donò anche una meravigliosa collana d’oro forgiata da Efesto. Quindi nuotando giunse fino alla spiaggia di Matala e da qui la condusse a Gortina; sotto il platano si consumò il sacro accoppiamento da cui nacquero, sembra insieme e immediatamente, Radamante, Minosse e Sarpedonte, secondo il racconto di Esiodo.
e le diede in dono una collana d’oro che Efesto rinomato artigiano [realizzò di persona] con mente esperta,
[un bell’ornamento] portandolo a suo padre;
ricevette il dono [e lo diede lui stesso] alla figlia del famoso Fenice…
proponendosi a Europa dalle caviglie sottili…
il padre di uomini e dèi…dalla sua sposa dalle bionde trecce.
Generò figli al possente figlio di Cronos… capo di molti uomini…Minosse il legislatore e i divini Radamanto e Sarpedonte, eccellenti e forti
Da Minosse e Pasifae nacquero numerosi figli tra cui Arianna e Fedra, entrambe infelici spose di Teseo, la prima abbandonata a Nasso, la seconda uccisa a causa dell’inverecondo amore per il figliastro Ippolito e poi Glauco, affogato bambino nel miele, e Androgeo ucciso dagli atleti invidiosi della sua superiorità – da cui la pretesa di Minosse che ogni anno 7 fanciulli e 7 fanciulle ateniesi fossero dati in pasto al Minotauro. Per non parlare del triste destino di Minosse che, a dispetto del suo nome che significa “il beato”, era vittima della gelosia della moglie Pasifae, la splendente, maga figlia del Sole, sorella di Circe, che con una fattura lo aveva condannato ad eiaculare scorpioni e serpenti se si fosse accoppiato a un’altra donna. Per giunta Minosse, contravvenendo alla promessa, aveva tenuto per sé un bellissimo toro bianco emerso dal mare che avrebbe dovuto sacrificare a Poseidone, in cambio di fertilità e prosperità per il suo regno. Poseidone sdegnato fece sì che Pasifae cadesse preda di una insana e inestinguibile passione per il toro, tanto da farsi costruire dal geniale Dedalo una vacca di legno all’interno della quale si nascose, riuscendo in tal modo a congiungersi con l’amata bestia. Da tale amplesso nacque il Minotauro.
La figura del toro come divinità è presente dal paleolitico e si ritrova in molte culture: dal Bue Api in Egitto, a Gilgamesh in Babilonia.
Il Minotauro ha comunque un’antenata bovide, Io, la fanciulla amata da Zeus e trasformata in giovenca dall’ira di Era; dal congiungimento di Io e Zeus nasce Epafo, padre di quella Libia madre di Agenore e quindi nonna di Europa e bisnonna di Minosse.
La ierogamia – l’unione tra un dio, spesso con sembianze animali, e una donna o più raramente tra una dea e un mortale, che mantiene l’aspetto umano – genera una creatura eccezionale, segna un nuovo assetto. Secondo Primo è l’unione tra la tendenza all’ascensionalità maschile e l’attitudine distesa e accogliente del femminile.
Camminiamo lungo l’Odeon inizialmente di struttura ellenistica, ma riedificato dopo il crollo dovuto a un terremoto nel I sec .d.C come un classico anfiteatro romano. Lungo una parete, protette da una grata, sono incise le famose leggi di Gortina, portate alla luce grazie agli scavi guidati da Federico Halbherr. Scritte nel IV-V sec d.C, comprendono leggi molto più antiche. La scrittura è bustrofedica, che si legge alternativamente da sinistra a destra e da destra a sinistra. È il più antico codice di leggi greco attualmente conosciuto ed esprime una certa apertura nei confronti delle donne: pur sposando un uomo scelto dal padre, esse potevano ereditare e amministrare patrimoni. Vestigia di un antico matriarcato?
Attraversiamo la strada e ci dirigiamo verso il Pretorio, fa caldo e il paesaggio è brullo. Non ci sono indicazioni, costeggiamo un recinto e sbirciamo alla ricerca dei resti del tempio di Apollo. Non siamo sicuri di averlo trovato, ma ci basta.
Procediamo verso Cnosso. Ci fermiamo in un ristorante all’ingresso del sito, dove solerti camerieri si affannano a reclutare i turisti. Non è il caso di andar troppo per il sottile. In diversi occupiamo alcuni tavolini e consumiamo il solito cibo greco. Non inferiore al solito, ma ovviamente più caro.
Cnosso è il trionfo di Evans, della sua determinazione nel voler strappare la civiltà minoica al silenzio in cui era rimasta fino ad allora, della sua interpretazione ottocentesca della vita degli antichi cretesi. Il palazzo è sontuoso, molto ampio, esteso su più piani, con scalinate regali, affreschi che sostituiscono i frammenti originali per dare allo spettatore l’idea di come il sito apparisse in realtà. La posizione è splendida, ma l’indelicatezza del restauro e la folla inarrestabile privano i luogo di fascino. Non vi è traccia del “genius loci” che abbiamo colto a Festo e soprattutto ad Aghia Triada. Ci ritroviamo all’ombra di un enorme fico per parlare ancora di ierogamia.
Ripartiamo per la nuova destinazione, Heraklion. Ci congederemo con sollievo dal nostro autista, veramente indisponibile e indisponente. Oltre a non facilitare il viaggio, anzi in qualche caso ostacolandolo, ha fatto laconicamente presente che la sua scorta d’acqua non era condivisibile con i passeggeri, si è rivolto con toni francamente maleducati a Daniela, che stava recuperando il suo posto con tracce di sabbia sui sandali ed ha duramente apostrofato Virginia che stava mangiando un gelato in attesa della partenza, temendo che volesse consumarlo a bordo. Scopriremo poi che è vicino alla pensione e ormai totalmente demotivato. Ci abbandoniamo a congetture sulla sua vita: visti i tratti somatici teutonici, che sia figlio di qualche soldato della Warmach attardatosi a Creta che ha sedotto e abbandonato una fanciulla locale, senza riconoscere il bambino e sparendo poi nel nulla? Molto legato alla madre e pieno di senso delle regole, ereditato dal padre, le applica rigidamente per poi accorgersi che tanta disciplina non gli ha fatto fare carriera? Triste e solo, non amato da nessuno – forse neanche dalla madre che vede in lui la sua vergogna – trascorre le serate ubriacandosi in solitudine?
Giungiamo a Heraklion, all’Hotel Capsis Astoria e, non ancora sazi, decidiamo di vederci nella hall per una ulteriore riunione periegetica prima di cena.
Il tema è, doverosamente, il labirinto. Ma cosa è il labirinto? Probabilmente un simbolo rappresentato graficamente fin dal Neolitico, il tracciato di un percorso con un unico centro al quale si arriva partendo da un unico punto, un percorso lineare ma complicato da continui rigiri o dalla presenza di vicoli ciechi. Fonti letterarie sia greche che romane designano con il termine labirinti edifici caratterizzati da un’architettura intricata, dove è facile entrare, ma difficile o impossibile uscire. Sembra che il termine labirinto sia stato reperito per la prima volta su una tavoletta in Lineare B “pa-si-te-o-i m-ri; da-pu-ri-tojo po-ti-ni-ja-meri” “un’anfora di miele a tutti gli dei; alla Signora del Labirinto un’anfora di miele”. È la parola “da-pu-ri-to-jo” che con una serie di parafasi suona come “labirinto”? O invece il termine deriva da “laybris”, l’ascia doppia ripetutamente raffigurata nel Palazzo di Cnosso, o da “labra”, caverna con molti cunicoli e corridoi? E il labirinto è nel Palazzo a Cnosso o a Gortina o in un’altra località cretese? La lettura de “I labirinti” di Kerényi e quella di “Il labirinto” di Kern è affascinante, ma non risponde a questi quesiti. Ma è importante? Struggenti sono invece i versi di Omero, Iliade libro XVIII, quando descrive lo scudo di Achille forgiato da Efesto
”Poi vi sculse una danza a quella eguale che ad Arianna dalle belle trecce nell’ampia Creta Dedalo compose. V’erano garzoncelli e verginette di bellissimo corpo, che saltando teneansi al carpo delle palme avvinti. Queste un velo sottil, quelli un farsetto ben tessuto vestìa, soavemente lustro qual bacca di palladia fronda. Portano queste al crin belle ghirlande, quelli aurato trafiere al fianco appeso da cintola d’argento. Ed or leggieri danzano in tondo con maestri passi, come rapida ruota che seduto al mobil torno il vasellier rivolve, or si spiegano in file”.
Teseo, ucciso il Minotauro con l’aiuto di Arianna e dopo averla abbandonata a Nasso, prosegue per Delo, per rendere onore agli dei Apollo e Artemide che lo avevano aiutato nell’impresa e qui ingaggia con i sette fanciulli e le sette fanciulle sottratte al Minotauro una danza, geranos, la “danza delle gru”, mirabilmente rappresentata sul Vaso François, cosiddetta forse perché eseguita nel periodo dell’anno in cui migrano le gru o per il tipo di passo, alzando alte le gambe, simile all’andatura del trampoliere. Sembra che la danza fosse guidata da due capo-fila che conducevano i danzatori, uniti da una fune, prima verso l’interno e poi di nuovo verso l’esterno. Arrivato al centro della spirale, il ballerino si volge indietro, mimando un movimento che ricorda la discesa agli inferi (la catabasi di cui tanto abbiamo parlato nella scorsa periegesi) e quindi la morte, ma anche – attraverso l’inversione del movimento di danza – la nascita. E la danza, la nascita, la fune – o il filo di Arianna – sono strettamente legati all’immagine femminile. Ed è bella l’immagine della gru tracciata da Marcel Detienne nel suo saggio “La grue et le labyrinthe” che sottolinea il riferimento non casuale a questo animale, considerato da Platone e Aristotele esempio di saggezza, prudenza, capacità di previsione e abilità navigatorie:” La gru vola da un’estremità all’altra del mondo e unisce i due estremi della terra”, come i danzatori del labirinto che congiungono l’entrata con l’uscita del cammino spiraliforme, facendo coincidere la fine con l’inizio. La spirale del labirinto ideato da Dedalo, simile alla forma di una conchiglia, e il filo grazie al quale Teseo, ma anche i danzatori, ne escono sono temi che ritornano nel mito della morte di Minosse, che smaschera la presenza di Dedalo presso il re Colao proprio grazie alla ingegnosa soluzione di come poter far passare un filo attraverso il guscio di una chiocciola.
Labirinto quindi come viaggio all’altro mondo, percorso della vita, spazio aporetico, mistero, luogo sotterraneo e segreto riservato agli adepti, immagine archetipica. Citando Herman Kern “nel labirinto non ci si perde, nel labirinto ci si trova, nel labirinto non si incontra il Minotauro, nel labirinto si incontra se stessi”.
Un po’ spaesati da tanti suggestivi richiami, ci avviamo alla ricerca di un ristorante. Separati in gruppi, ma alla fine tutti coincidenti nello stesso locale, Kastella, sul mare, nei pressi della rocca veneziana. Alcuni trovano posto nello spazio esterno, altri all’interno. Il cibo è classicamente greco, senza infamia e senza lode, l’attesa un po’ sfinente, la conversazione – almeno a un tavolo – verte sulla politica del governo italiano dimissionario. Le opinioni sono discordi, i toni si alzano, la discussione è accesa, in particolare tra Alberto e Primo. Ognuno resta della sua idea.
Mercoledì 4 settembre. Colazione abbondante poi subito all’immenso Museo Archeologico di Heraklion. Soliti disguidi nei biglietti per le distinzioni tra over e under 65, anche se questo secondo gruppo diviene sempre più sparuto. Concetta, che generosamente si fa carico dell’ingrata incombenza, fa la fila due volte, stretta tra masse di turisti e scolaresche. All’interno ci disperdiamo per le 20 sale che costituiscono il museo, impossibile descrivere la ricchezza dei reperti, dal neolitico all’età classica, che acquistano una sapore particolare dal momento che abbiamo già visitato molti dei luoghi da cui provengono. Solo qualche segnalazione: i bellissimi vasi del periodo prepalaziale che vanno dallo stile geometrico a quello naturalistico, le pregevoli ceramiche di Kamares – dal nome della grotta in cui sono state reperite – arricchite da applicazioni, i vasi raffinatissimi in alabastro, adibiti a uso domestico o rituale; il disco di Festo, un piccolo disco di terracotta di 16 cm di diametro su cui sono incisi 45 simboli diversi che si ripetono per 242 volte lungo una spirale su entrambi i lati, sillabe o parole, forse un inno alle dee, o un elenco di note musicali, o una lettera di saluto, o un elenco di siti religiosi…; il raffinatissimo vaso del periodo neopalaziale a forma di testa di toro in cui le labbra sono formate da minuscole scaglie di conchiglie e gli occhi di cristallo di rocca, la celeberrima dea dei serpenti. Ancora il sarcofago di Aghia Triada con scene di culto: su un lato una processione di donne seguite da una suonatrice di cetra, riempiono un bacile posto tra due colonne sormontate da asce bipenni, su cui sono posati degli uccelli, simbolo della divinità; dall’altro il sacrificio di un toro da parte di una sacerdotessa di fronte alla quale vi è un edificio sormontato dalle corna di consacrazione, sulla cui porta è posto un albero, che rimanda al culto degli alberi e al loro significato di marcatura di un luogo sacro; infine sul lato corto due divinità femminili su un carro trainato da un grifone. Magnifico l’affresco della taurocatapsia, il salto del toro, collocato nel corridoio delle processioni nel palazzo di Cnosso, in cui il movimento è reso con tre figure: un atleta afferra le corna, un secondo volteggia sull’animale e un terzo in posa elegante è appena balzato a terra.
E poi le figurine di bronzo con la mano sulla fronte, come se guardassero lontano, gli affreschi molto ricostruiti, ma suggestivi del palazzo di Cnosso, le dee a braccia alzate e con fiori di papavero tra i capelli
e anche un tempietto circolare risalente al IX sec a.C, ma di ispirazione minoica contenete la figura di una dea a braccia alzate mentre due adoranti e un animale la osservano da un’apertura sul tetto, come a simboleggiare un contatto tra mondo terrestre e mondo divino.
Infine statue del periodo arcaico, classico e romano e tabelloni che riportano la genealogia di Europa, compresi i nove figli di Minosse, e le rappresentazioni del Minotauro in età moderna e contemporanea, dal cinema, ai quadri di Dalì e Picasso.
La prevista visita all’isola di Dia, luogo dell’appassionato incontro tra Teseo e Arianna, non avrà luogo per mancanza di traghetti disponibili; sembra infatti che debbano essere prenotati con diversi giorni d’anticipo. La notizia non affligge i Periegeti: pomeriggio libero, ognuno si organizza come crede. Appuntamento nella hall prima di cena.
Non ancora soddisfatte, alcune – Daniela ,Laura, Mesa e Cristina – visitano anche una mostra lì adiacente su Dedalo, interessante perché si ribadisce che il concetto di labirinto nasce non come caratteristica di un edificio, ma come un simbolo.
Poi ci disperdiamo. Isa, Cristina e Laura fanno una passeggiata per Heraklion, fino alla rocca veneziana battuta dai marosi e proseguono per il Museo Storico di Creta, ospitato in un bel palazzetto neoclassico, la casa privata dei coniugi Kalokairinos che poi lo hanno ceduto alla città. C’è anche un bar e sulla ventosa terrazza si consumano caffè e gelati. Poi una visita alla collezione di ceramiche dal periodo cristiano al XIX secolo, sculture bizantine, icone tenute in un ambiente oscurato, le pitture di famosi pittori cretesi del XVI e XVII secolo, monete, testimonianze della storia dell’isola fino all’indipendenza e all’annessione alla Grecia. Nel giardino del museo stanno allestendo un concerto di musica classica e Cristina verrà a sentirlo. Tornando in hotel un rapido sguardo alle tante testimonianze del dominio veneziano (la fontana Morosini, la Loggia Veneziana, la Basilica di San Marco) e ai negozietti che offrono prodotti locali, compresi ciondoli con la doppia ascia.
In albergo ci raduniamo in una saletta un po’ rumorosa per qualche scambio di idee sulle divinità minoiche. In particolare emergono interpretazioni sulla statuetta della dea dei serpenti, che sembra riecheggiare nella fattura e nell’impiego dei materiali l’arte egizia, e sulla posizione delle braccia sollevate mentre brandisce un serpente in ciascuna mano. Per alcuni potrebbe avere un ruolo antropopaico, o richiamare allusioni al significato magico di gatti e serpenti, compagnia abituale delle streghe. Giada associa all’immagine quella di una dea potente, che risveglia la kundalini, l’energia divina quiescente in ogni individuo. Riccardo ci richiama al valore mitopoietico della mente, i bambini inventano storie; secondo Marinatos i sigilli raccontano la vita dei minoici, la loro storia, quella di una civiltà definita “estatica” da Kerényi. Vengono citati Valéry: “Il poema – questa esitazione prolungata tra il suono e il senso“, e Susanneti e infine viene proposta l’audace ipotesi dell’archeologa Gimbutas che attribuisce alla testa cornuta del toro il significato di un utero con le tube…
Si è fatto tardi. Sciamiamo per la città e andiamo a cena.
La città si anima di sera, molti giovani, un’aria apparentemente leggera e spensierata, vivace, che invita a fermarsi ancora in qualche locale che fa musica, ma le giornate perigetiche sono lunghe e impegnative e si torna piano in albergo.
Giovedi 5 settembre. Ci attendono novità, è arrivato Patrick, accolto calorosamente, ma non la sua valigia che, scopriremo dopo, non arriverà mai. Un rapido shopping – che si intensificherà strada facendo – lo mette comunque in grado di indossare abiti idonei e di unirsi alla truppa. Seconda piacevole novità, abbiamo un nuovo autista, Christos, nome che è già una garanzia. Di natura molto diversa dal cupo Nico e forse opportunamente addestrato dall’Agenzia a cui Nora ha rivolto cortesi ma ferme proteste, si fa incontro gioviale e sorridente, carica con energia i bagagli, si dichiara disponibile a deviazioni dal percorso e promette che non ci saranno problemi. Così sollevati riprendiamo il viaggio. Ci dirigiamo al palazzo minoico di Galata. Lungo il percorso Riccardo parla di molte cose: cita Galimberti “il mito non significa, parla per immagini, la psiche si nutre di immagini, non di concetti, espressione del logos razionale che non è in grado di catturare i sottofondi dell’anima, che si manifestano invece attraverso immagini, figure, miti scenari, materiale di romanzieri e poeti”; la resistenza del mito nel tempo in base alla sua veridicità e universalità, la sua polisemia, come espresso da Guido Paduano in “La lunga storia di Edipo re”; il sorriso degli dèi, gli dèi greci sono inclini al sorriso e i Greci sono l’unico popolo che sa ridere ironicamente dei propri dèi. Isa legge da Aleph di Borges “La casa di Asterione”. Siamo tutti estasiati.
Giungiamo a Galata, il cui reperimento non è stato facile, percorrendo una stretta strada sterrata, ma Christos va spedito e senza protestare e noi ci fidiamo. Percorriamo poi a piedi un sentiero in salita su un poggio brullo, ma con un bel contrasto tra il colore sabbioso del terreno e l’azzurro intenso del cielo, sempre spazzato da una piacevole brezza. Giunti in cima troviamo il sito chiuso da un solido e alto recinto. Cerchiamo passaggi, scuotiamo la rete, ma niente finché Primo, Patrik e Alberto riescono a insinuarsi strisciando come marines sotto la rete. Il resto del gruppo continua la circumnavigazione e Concetta avvista un punto in cui il recinto presenta dei buchi, si discute se conviene passare di sotto o scavalcare. Alla fine ognuno fa come crede e più o meno goffamente penetriamo all’interno. Sono le rovine di una struttura palaziale che ormai ci è ben nota, con una corte centrale rettangolare che rispetta le proporzioni obbligatorie del lato breve pari alla metà del lato lungo, in questo caso 16 x 32 metri, con orientamento nord-sud. Gli affreschi sono andati perduti, ma sono evidenti i magazzini per il grano e nell’ala est stanno portando alla luce un focolare di fattura micenea. Si tratta infatti di un edificio risalente al periodo post-palaziale, successivo alla distruzione del 1450 a.C che sconvolse praticamente tutta l’isola. Un albero fronzuto ci ospita alla sua ombra e discutiamo sulle cause di tale disastro. La teoria a lungo sostenuta che il primum movens fosse rappresentato dal terremoto che distrusse l’isola di Santorini e dallo tsunami che ne segui è messa in discussione dalle date. Il maremoto di Santorini è stato retrodatato di circa 100 anni, al 1600 a.C, e la distruzione dei palazzi minoici posticipata al 1400 a.C, duecento anni di distanza sono troppi per mettere in relazione i due eventi. Si avanzano le ipotesi di un incendio pantoclastico o di invasioni cui Cnosso resistette, almeno inizialmente, per soccombere a sua volta agli invasori, forse i popoli Luvii, vicini agli Ittiti – data anche la somiglianza tra la scrittura Ittita e la Lineare A – o forse i Micenei, che comunque assorbirono molte tradizioni minoiche, la religione innanzitutto, alcune parole, ma non la scrittura e l’arte raffinata; forse erano troppo “barbari” per acquisire attività così evolute.
Risaliamo sul pullman e Christos ci offre sorridendo brioches, guadagnandosi così imperitura gratitudine. Proseguiamo per le Grotte di Skotino, che significa buio, luogo di culto della divina Britomarti. Tappa obbligata la visita a una grotta, luogo sempre molto amato dai Periegeti. Qualcuno preferisce aspettare fuori, sull’orlo di quello che si apre come un abisso ai nostri piedi, altri scendono più o meno profondamente. Sembra che nella parte più bassa stalattiti e stalagmiti formino strane figure, proviamo a vederle alla luce dei cellulari, ma solo i più suggestionabili credono di scorgere qualcosa di significativo. Ci siamo meritati una sosta. Ci affidiamo al bravo Christos chiedendo cibo, ma non un vero ristorante, mare, ma non lontano, relax, ma compatibilmente con i tempi stretti. Impassibile ci conduce rapidamente a Potamos, taberna sul mare. Consumiamo contenti la consueta insalata greca, Alberto e Laura si avviano anche a un rapido bagno, l’acqua è bella, calda, e il fondale di sabbia fine, ma c’è molta corrente. Facciamo in tempo a stento a risalire sul pullman, già in movimento sotto la pressione di chi il bagno non l’ha fatto e si è ricordato all’improvviso della stringente tabella di marcia. Via verso il golfo di Malia, dove a circa 35 Km dal mare sorge il sito archeologico in cui convivono i ruderi dell’edificio risalente al periodo palaziale (1700-1900 a.C) – coperti da una tettoia, in cui si scorgono resti di magazzini e laboratori – e quelli, ben conservati, del nuovo palazzo (1700-1450 a.C.), il terzo dopo Cnosso e Festo per dimensioni, da cui provengono reperti che testimoniano il suo passato splendore, primo fra tutti il bellissimo pendente in oro che rappresenta un’ape, ammirato nel museo di Heraklion. La leggenda vuole che il re del luogo fosse Sarpedonte, essendo i palazzi di Cnosso e Festo toccati a Minosse e Radamante rispettivamente. All’ingresso sono collocati due plastici che descrivono i palazzi nella loro interezza. La struttura è quella classica: ampie scalinate, ala est e ala ovest che ospita gli appartamenti reali secondo la dizione di Evans e dove la brezza del mare veniva incanalata attraverso dei portici posti all’ingresso, la corte centrale fiancheggiata da colonne e pilastri alternati, luoghi di sepoltura e di culto. Un reperto particolare è il famoso Kernos, una tavola circolare con delle cavità lungo il bordo e una più ampia al centro dove sembra che i minoici usassero porre offerte al dio – o meglio alla dea delle messi e della natura, Demetra o Persefone – per propiziare un abbondante raccolto. I palazzi sono tutti abbastanza simili, ma i luoghi no, o meglio è diverso lo spirito che aleggia in ciascuno di essi.
Qui la luce è dolce, i raggi del sole già obliqui. Nora ha con sé gli amati Dialoghi di Leucò e chiede che vengano letti. Giada ha davvero le phisique du rol per interpretare una dèa o una ninfa, ma si schermisce. Saranno allora Isa e Laura a recitare Saffo e Britomarti e poi Leucotea e Arianna. Il pubblico è benevolo e applausi chiudono la piccola performance
Riprendiamo la strada per la città dorica di Dreros. Qui sono state trovate le prime sculture dedaliche, in particolare il bellissimo trittico di Latona, Apollo e Afrodite, la madre più piccola dei figli, anch’esso visto al Museo di Heraklion. Giunti in zona, davanti a noi si erge un cammino in salita solo vagamente recintato. Ci inerpichiamo, ma il terreno è scosceso e i più decidono saggiamente di rinunciare. Un piccolo drappello continua, si sale senza un sentiero, poi se ne rintraccia uno, si sale ancora, infine si intravede la vetta. Primo, Franco, Riccardo e Laura arrivano in cima, più per una questione di principio che per altro, c’è un bel panorama e un rudere di colonna. Ci piace farci immortalare.
La discesa è meno liscia del previsto, non è facile rintracciare il sentiero e così scendiamo a caso. Riguadagniamo il pullman che è già quasi buio. Proseguiamo per Agios Nikolaos, sulla baia Mirabello, dove ci attende l’Hotel Santa Marina. Siamo un po’ stanchi. La giornata è stata impegnativa anche fisicamente. La cittadina è piacevole, ceniamo nei ristoranti sul mare.
Venerdì 6 settembre. Colazione in sala affollata da gruppi turistici, prevalentemente dell’Europa dell’Est nell’hotel definito con una felice espressione di Daniela in “stile sovietico”.
Oggi andiamo alla città minoica di Gournia e per raggiungerla costeggiamo il golfo di Mirabello, davvero bellissimo. Durante il tragitto Daniela ci racconta il bel mito delle cicale, tratto dal dialogo platonico Fedro: in un tempo antico, prima della nascita delle Muse, le cicale erano uomini tanto appassionati della musica e del canto da non smettere mai, rinunciando anche a mangiare, fino a morire; gli dei, impietositi, li trasformarono in cicale, che possono sopravvivere nutrendosi solo di rugiada, così da poter incessantemente dialogare tra loro in musica, unica arte alla quale Platone attribuisce un giudizio positivo in quanto non è “imitazione dell’imitazione”. Platone infatti non apprezzava i poeti, ritenendo che non dicessero la verità e che fossero dei cattivi maestri, opinione già espressa da Esiodo. Con un balzo concettuale tipicamente periegetico si passa a parlare di Anassagora che, affermando che “il sole è una pietra incandescente e la luna un corpo terroso” nega sostanzialmente la divinità e valorizza la capacità razionale dell’uomo; la creazione nasce dalla mente e l’uomo è intelligente perché ha le mani, ma secondo Aristotele l’uomo ha le mani perché è il più intelligente degli animali. Anassagora, nato in Ionia e poi trasferitosi ad Atene e divenuto amico di Pericle, fu costretto all’esilio e tornò in Ionia, contrariamente a Socrate, che rifiutò l’esilio e accettò la morte, sottomettendosi alla volontà della polis.
Gournia è situata in una posizione invidiabile, su una collina nella parte più stretta di Creta da cui la vista spazia a sud sul mare libico e a nord sul mare Egeo. Il nome non è quello originario, ma deriva dal termine con cui venivano indicate diverse pietre cave disseminate tra le rovine, scavate all’inizio del 1900 da archeologi americani. Vi sono tracce risalenti al tardo Neolitico, i resti del palazzo edificato nel periodo dei primi palazzi, ricostruito nelle forme attualmente visibili dopo la distruzione che sconvolse tutta l’isola e infine testimonianze del sito riabitato tra il 1370 e il 1200 a.C., quando fu abbandonato definitivamente. Il palazzo, relativamente piccolo, ha una corte esterna e non inglobata all’interno come d’abitudine, probabilmente questa rivestiva una funzione pubblica. Sono presenti monumenti funerari a forma di casetta e sono state trovate testimonianze di culti e riti: una pietra a forma di corna di consacrazione probabilmente caduta dal tetto del palazzo, vasi per libagioni, alcuni molto belli con il motivo del polipo li abbiamo visti nel Museo di Heraklion, un ampio sasso piatto, considerato una piattaforma per il sacrificio del toro, un piccolo kernos simile a quello che abbiamo trovato a Mallia, un sasso sacro, i reperti di dee a braccia alzate con serpenti intorno al corpo, vasi decorati con corna e serpenti in rilievo attribuiti al periodo miceneo, una doppia ascia di bronzo, pesi da telaio, sigilli incisi, pitoi, strumenti e armi di bronzo, tutte testimonianze della intensa vita artigiana, commerciale e cerimoniale della città.
Il panorama è suggestivo e ci attardiamo volentieri. Ripartiamo per Vassiliki, il palazzo da cui provengono le bellissime ceramiche con questo nome, anch’esse esposte nel museo di Heraklion, tipicamente con il lungo collo inclinato tipo teiera o a portauovo. Anche questa volta ci inerpichiamo per una breve salita e ci introduciamo con varie contorsioni in un pertugio della rete, per poi scoprire che si può accedere attraverso un comodo cancello, aperto e non sottoposto a pedaggio. Ma che gusto ci sarebbe?
Siamo ora diretti a Ierapetra per una meritata sosta sul mare libico. Lungo il viaggio di attraversamento tra la costa nord a quella sud Sara cerca di leggere brani del libro di Nannos Marinatos sulle divinità minoiche a cui siamo tutti molto interessati, ma Riccardo, certo inconsapevolmente, la interrompe di continuo fino a farla spazientire. Ne nasce un vivace scambio di battute, stranamente disinibito, segno della passionalità periegetica, qualunque sia l’argomento. A Ierapetra facciamo una breve passeggiata sul lungomare e ci sistemiamo a piccoli gruppi nei vari ristorantini, tutti abbastanza simili. Il mare è molto invitante e diversi si tuffano. Poi Primo, Concetta e Laura con il pullman a loro completa disposizione vanno verso Myrtos, ennesimo luogo minoico, raggiungibile attraverso una salita che dalla strada sembra un po’ scoscesa, per cui Laura rinuncia e lascia che i compagni si avventurino. Al ritorno parlano di poche rovine, non molto significative, ma di una bella vista sul mare. Ancora un bagno e poi via di nuovo verso Agios Nikolaos. In pullman si parla di molte cose. In particolare brani da “I Minoici. La vita a Creta nell’età del bronzo” di Rodney Castleden e quelli letti da Franco da “La vita quotidiana a Creta ai tempi di Minosse” di Paul Faure sono utili per ridefinire i vari periodi della civiltà minoica. Poi Isa legge dei passi da “Arcipelago” di Ieranò su Creta e Talo, il mostro che la custodiva. Il panorama è bellissimo sul golfo di Mirabello.
Torniamo in hotel e alle 18.30 ci ritroviamo nella hall per ascoltare Sandro che ci parla di “Shining”, di Stanley Kubrick, dato che il film – ma non il romanzo di Stephen King da cui è tratto – riporta il tema del labirinto. Alcune notazioni interessanti: il regista ha chiesto la consulenza di uno psichiatra freudiano, si vede l’ombra dell’elicottero da cui vengono effettuate le riprese e questo non può che essere intenzionale, il nome dell’hotel – Outlook – vuol dire guardare, ispezionare, ma anche sottovalutare, trascurare; si crea un’atmosfera kafkiana con il tema del doppio rappresentato da due poliziotti, dall’amico immaginario del piccolo protagonista dotato di “luccicanza” e dalle due bambine morte che gli appaiono; l’ attrice (Shelley Duvall) che interpreta la madre riveste il ruolo in modo da essere del tutto insignificante, come espressamente richiesto dal regista, Il padre interpretato da Jack Nicholson muore congelato nel labirinto, nel finale appare una foto risalente al 1921 in cui si nota l’immagine dello stesso Nicholson, segno che evidentemente c’è un ritorno dopo la morte, la scena finale di Shining è la scena iniziale di Blade Runner del regista Ridley Scott. Infine la frase che viene battuta ripetutamente alla macchina da scrivere che in italiano è “Le ore del mattino hanno l’oro in bocca”, nel testo originale dice “Tutto lavoro e niente gioco rendono John stupido”, però secondo Teresa la traduzione esatta di “dull” sarebbe noioso, ripetitivo. Si sviluppa una discussione sul significato del giovane paredro spesso rappresentato accanto alla dea, forse un tentativo di separarsi dalla Grande Madre, come Narciso che però nell’acqua, simbolo della Grande Madre, muore, o Ippolito che tenta di liberarsi di Afrodite, ma viene ricatturato da Fedra. Primo parla degli eroi – il bambino illuminato del film è un eroe, in quanto capace di vincere sulla parte infantile e indefinita del sé. Il tema del film è il rapporto tra identità ed esame della realtà, la frase ripetuta è il ricadere nella non identificazione, il magma della Grande Madre. Anche Edipo chiede da chi è nato, è questa la ricerca di ognuno. L’eroe riporta ordine nel mondo uccidendo i mostri, come Teseo che uccide il Minotauro, ma proprio per questo Hillman non ama gli eroi. Poi andiamo a cena.
Sabato 7 settembre. Di nuovo in pullman. Isa legge sempre da “Arcipelago” di Ieranò notizie sulla figura di Buondelmonti e sulla immagine che di Creta avevano gli antichi: un’isola giardino, senza nuvole né animali feroci, dove secondo a leggenda è nato Zeus.
Ripercorriamo la strada lungo la bella costa fino a Mochlos. Vi arriviamo abbastanza presto, i piccoli locali sulla baia stanno aprendo ora, il cielo è terso, l’aria fresca, i tavolini bianchi e blu sulle pedane di legno e cemento proprio sul mare ancora puliti e brillanti di rugiada. Davanti a noi pochi metri di mare ci separano dall’isola su cui è il sito archeologico.
Una barca fa la spola tra le due rive portando 5-6 persone alla volta. Ci imbarchiamo, pochi rimangono al bar, Riccardo si getta a nuoto dando vigorose bracciate stile Montalbano. Ammirevole davvero!
L’isolotto è magico, dalla sommità si gode di un panorama ampio, procediamo tra le emergenze archeologiche che vanno dal primo periodo minoico all’ellenistico all’epoca bizantina. Vi è una vegetazione bassa ed è facile immaginare come in primavera sia coperta di fiori. Scattiamo foto, parlando tra noi o rimirando estatici.
Il giovane e muscoloso Caronte ci riporta all’altra riva: Cristina, Laura e Giada approfittano per un bagno, l’acqua è un po’ sporca, peccato non essersi buttate all’isolotto, dove era trasparente e limpidissima. Ci attardiamo ancora per un caffè da una signora trentina che ha preferito trasferirsi qui, un flusso migratorio al contrario, e vagheggiamo di una vacanza in uno degli alberghetti del luogo dove al tramonto ci deve essere una pace totale. Ci riavviamo pigramente all’autobus, tra le stradine piene di bouganville rigogliosissime. L’attenzione delle signore viene attratta da un negozio di abbigliamento, Chez Cécile, che ha cose molto carine, scialli in particolare, che vengono acquistate con gran soddisfazione, malgrado gli evidenti segni di impazienza di Primo, che teme non si giunga in tempo a Sitia, per vedere il museo archeologico.
Avremo invece agio di visitarlo con calma, dal momento che la chiusura è alle 16.00, non alle 14.00 come riportato sul sito web. Il museo è molto interessante: ancora tabelle illustrative dei vari periodi, poi reperti provenienti soprattutto da sito di Aghia Photia risalenti al primo periodo minoico con oggetti costruiti a Creta ma di chiara ispirazione cicladica come le famose padelle di cui si ignora la funzione esatta, che abbiamo trovato nella nostra periegesi nelle Cicladi, soprattutto a Siros. Ancora oggetti provenienti dagli scavi di Zakros, Petras e Mochlos testimoniano l’importazione dalle Cicladi di ossidania, rame, conchiglie, gioielli e documentano le abitudini di vita quotidiana, il tipo di cibo consumato e come veniva cucinato e conservato. Nelle vetrine sono raccolti bei vasi a forma di “teiera”, utensili da cucina, monili, tavolette in Lineare A e anche vasi e mosaici risalenti al periodo arcaico, ellenistico e romano.
Il reperto di maggior valore tuttavia e che rende celebre il museo è il famoso kouros di Palaikastro, unico nel suo genere, una statuetta alta circa 50 cm risalente al Tardo Minoico,1500 a.C. circa, raffigurante un giovinetto, ricostruita con vari frammenti in avorio. Colpisce per l’eleganza delle forme e l’aspetto flessuoso e longilineo, le stesse caratteristiche delle figure umane effigiate negli affreschi dei palazzi e che evidentemente rappresentano i criteri estetici della civiltà minoica. Qui però si avverte una forte influenza egizia, non solo per la forma, ma anche per i materiali utilizzati: l’avorio, l’oro e il classico colore blu, ottenuto mescolando rame e nitrati e importato dall’Egitto.
Per il pranzo, in diversi ci sistemiamo sui comodi divanetti di una taverna sul lungomare. Si sta bene, il cibo è buono e abbondante. Si intrecciano conversazioni, riaffiorano insanabili divergenze in ambito politico. Dobbiamo rinunciare alla visita al sito archeologico di Petra, ormai chiuso e proseguiamo per il Monastero di Toplu, uno dei più antichi e dei più grandi di Creta, con affreschi che risalgono al 1300. Il nome è turco e deriva dalla parola top, palla di cannone, dal cannone un tempo posto sulla fortificazione e ora situato all’ingresso. Distrutto dai Turchi, saccheggiato dai cavalieri di Malta, crollato per un terremoto, ricostruito e fortificato dai Veneziani nel XVII secolo, il monastero continuò a svilupparsi nel corso del XVIII secolo e nel XIX, durante l’occupazione turca, fu sede di una scuola segreta e rifugio per i Cretesi perseguitati, mentre durante durante la Seconda Guerra Mondiale divenne sede del movimento di resistenza nazionale, attività che molti monaci pagarono con la vita. Ciononostante è un luogo di pace: nello spazio antistante la chiesa fioriscono enormi bouganville, da una terrazza si vede da vicino lo snello campanile cinquecentesco in stile italiano, di fianco al monastero un grande mulino e dall’altra parte della strada la chiesina della Santa Croce, con un minuscolo cimitero in cui sono sepolti i pope.
All’interno del monastero, nella chiesa, affreschi trecenteschi e numerose icone, particolarmente pregiata la grande “Megas ei Kyrie” del pittore cretese-veneziano Giovanni Kornaros, dipinta nel 1770, in cui sono raffigurate 61 scene dal Nuovo e Antico Testamento, con il Battesimo e l’Epifania di Cristo come tema centrale. Nucleo culturale oltre che religioso, il monastero ha un’ampia raccolta di libri e documenti dal XVIII al XX secolo che testimoniano la storia del luogo. Su un muro è incisa una iscrizione del II sec. a.C che riporta le prime 80 righe di un trattato di pace tra le città di Itanos e Ierapitna con la città di Magnesia, in Asia Minore.
Sulla via del ritorno siamo silenziosi, il paesaggio intorno è suggestivo, i pensieri ripercorrono la giornata, intensa di luci, profumi, emozioni. Christos, incoraggiato dall’interesse mostrato da Riccardo per le danze cretesi, mette musica popolare, un po’ monotona, ma fa atmosfera da gita scolastica e così illustri professori e noti professionisti battono allegri le mani a tempo. All’hotel Itanos, dopo una breve pausa, è indetta una riunione sul roof, a bordo piscina. Tira un po’ di vento, ma ascoltiamo con molto interesse Sara che finalmente può parlare liberamente delle caratteristiche della religione minoica. Secondo la studiosa Nannos Marinatos le difficoltà nella comprensione della realtà minoica sono dovute al fatto che questa sia interpretata sulla base di una mentalità greca e che vengano trascurate le forti influenze egizie e mesopotamiche. Si dovrebbe quindi tener presente che 1) vi furono forti scambi commerciali e culturali tra Creta e l’Egitto, tra Cnosso e Cipro e con le popolazioni Ittite, soprattutto nel periodo neopalaziale; 2) a Creta probabilmente vigeva una monarchia teocratica, in cui le figure de re, del dio e del sacerdote si identificavano, come appunto in Egitto, a Cipro e presso gli Ittiti; 3) le divinità solari sono essenzialmente femminili; tuttora nelle lingue germaniche il sole è femminile, il sole è donna, il giovane dio figlio è re della tempesta, la doppia ascia è, come in Egitto, simbolo della dea solare, dal momento che il filo dell’ascia è assimilabile a un sole che nasce e tramonta, che percorre tutto il cosmo, da est a ovest di giorno e da ovest a est di notte, come peraltro si può ravvisare il sole nascente anche nel profilo delle corna di consacrazione, con analogie con l’adorazione del sole nascente degli Egizi; 4) in larnak con motivi floreali e marini, in anelli d’oro simbolo di regalità, sono rappresentate figure femminili, sacerdotesse e regine madri; i grifoni sono animali solari sacri alla dea; rosette e sigilli portano impressi santuari all’aria aperta con la sacerdotessa che si aggrappa all’albero, a volte una palma, scuotendolo ritualmente; si trovano di frequente raffigurazioni di germogli che spuntano e che, come il sole nascente, simboleggiano la vita nel suo massimo vigore; 5) le raffigurazioni documentano cerimonie di possessione e riti estatici attraverso un contatto diretto con la divinità; spesso vi sono rappresentazioni di crochi e papaveri dal potere allucinatorio e lo stato di estasi viene indicato da minuscole bollicine che si innalzano accanto alla dormiente, una sorta di incubazione; 6) al centro della concezione cosmica vi è dunque il sole rappresentato come una figura femminile, mentre la figura maschile – re o sacerdote – quando presente è di proporzioni più piccole rispetto a quella femminile. In breve tempo tuttavia occorsero grandi cambiamenti: la Grande Madre, concezione antica durata decine di millenni, sparì. Ringraziamo Sara per il bell’excursus e ancora parliamo dell’originalità della cultura minoica; sicuramente influenzata dalle civiltà orientali con cui è venuta in contatto ha caratteri peculiari: il ruolo femminile sottolineato dalle raffigurazioni di dee e sacerdotesse, anche se sicuramente le donne erano in una condizione di inferiorità, la relativa pace o almeno la non glorificazione della guerra, che non viene mai rappresentata, l’assenza di un culto della personalità come per esempio in Egitto, i signori non vengono effigiati e lo stesso termine Minosse pare generico per indicare il re e poi la raffinatezza e tipologia dei tanti manufatti che abbiamo ammirato nei musei. Un po’ infreddoliti dalla brezza serale, ci sparpagliamo per la cena. Sandro – ormai uno sceicco con harem al seguito -Virginia, Cristina, Mesa, Daniela, Novella, Laura, Teresa e Sara vanno da Zorbas, un locale molto animato sul lungomare, frequentato anche da cretesi, rumoroso e movimentato, gestito da un signore tracagnotto e baffuto che Novella apostrofa senza ombra di dubbio con il nome di Zorbas. Parliamo di tante cose, di case e giardini, ci divertiamo.
Domenica 8 settembre. La colazione non è delle migliori, ma il sole splende, siamo di buon umore e immortaliamo i nostri sorrisi.
Insistiamo per visitare il sito di Petras, irrimediabilmente chiuso. Non ci resta che riprendere la strada per Kato Zakros, all’estremo est di Creta, e ascoltare Primo: Petras è interessante perché rappresenta il primo nucleo di transizione tra Neolitico e Primo Minoico, partenza di una scintilla che portò una civiltà relativamente arretrata rispetto a quanto presente sulla terraferma all’epoca, allo sviluppo di una civiltà elevatissima. Qui inoltre sono stati rinvenuti dei geroglifici precedenti la scrittura Lineare A o forse coevi, ma in questo palazzo persistiti più a lungo che in altre zone dell’isola. A bordo fervono le letture: si riparla del geranos, la danza delle gru raffigurata sul vaso François: si procede per parallasse e spirali con due guide; le gru sono animali prudenti, vanno con i piedi di piombo, volano da un capo all’altro del mondo, come dall’entrata all’uscita del labirinto, i danzatori si tengono con una fune e intrecciano la danza, analogamente al il filo d’Arianna che si srotola nella rete del labirinto. Il filo ha un significato magico. Si torna ad Arianna, figura identificata solo attraverso i suoi amori, Teseo e Dioniso, ma cantata da Orazio, Ovidio, Properzio e Catullo, mentre il Minotauro non ha trovato cantori nell’epoca classica. Il tema di Arianna abbandonata sull’isola poteva riecheggiare drammaticamente nell’età di Roma Imperiale, ci dice Daniela, quando il luogo dell’esilio veniva imposto, mentre durante la repubblica poteva essere scelto dall’esiliato. Qualche verso da Il lamento di Arianna di Nietzsche
“ Sii saggia Arianna!
Hai piccole orecchie, hai le mie orecchie:
metti là dentro una saggia parola!-
Non ci si deve prima odiare, se si vuole amare?
Io sono il tuo Labirinto…”
La strada che è salita all’interno ora riscende e davanti a noi si apre la magnifica baia di Zakros. Ci dirigiamo subito al Palazzo di Zakros, il quarto per dimensioni dopo Cnosso, Festo e Mallia, collocato in una posizione strategica per i commerci con l’Oriente, Siria Palestina ed Egitto in particolare, e dotato di una insenatura naturale che offriva un porto sicuro per le leggere imbarcazioni minoiche. Seguendo il destino degli altri palazzi minoici, fu edificato nel 1900 a.C circa, distrutto nel 1700 a.C. riedificato nel 1600 a.C nelle forme attualmente visibili e di nuovo distrutto nel 1450 per poi essere definitivamente abbandonato. La particolarità del sito rispetto agli altri che abbiamo visitato è che probabilmente – al di là delle strutture amministrative e cerimoniali – vi fossero anche dei locali residenziali: due o tre case con molte stanze, collegate da un reticolo di strade pavimentate. L’entrata principale, contrariamente a quanto di consueto nei palazzi minoici, è a nord-est e collegava la città al porto mentre a ovest si stendeva una piccola valle detta la Valle dei Morti dall’archeologo greco Nikolas Platon per le grotte sepolcrali qui rinvenute negli scavi condotti negli anni ‘60 del secolo scorso.
Poco oltre l’ingresso un bacino lustrale e delle vasche forse destinate all’irrigazione. A pelo dell’acqua due libellule strettamente avvinte intrecciano una danza nuziale, è poetico e Patrick le riprende con abilità. Scale, magazzini destinati allo stivaggio di manufatti piuttosto che di prodotti agricoli, portici, cucine, un’ampia sala per banchetti, una sala per cerimonie destinata al culto, alle cerimonie o forse a quartiere residenziale d’inverno, non sappiamo…Gli appartamenti del re e della regina con resti di colonne lignee con portici e prese di luce, bacini lustrali spesso con stucchi di gesso e verosimilmente deputati a purificazioni rituali, santuari, archivi, una stanza del tesoro dove sono stati rinvenuti rython, vasi in cristallo di rocca, calici e molte doppie asce sia in pietra che in bronzo, oltre a una rete di vestiboli che connettevano tra loro i vari ambienti, una struttura effettivamente labirintica. Nei laboratori di questo palazzo sono stati forgiati alcuni degli oggetti più raffinati prodotti della civiltà minoica, primo fra tutti il rython a forma di testa di toro e quello raffigurante in dettaglio un rito sacro e quindi insieme esempio di arte squisita e documento storico. Sempre da Zakros provengono molte tavolette di argilla con iscrizioni in Lineare A. Attorno al palazzo si sviluppava la città dove sono stati rinvenuti una grande fornace, contenitori di vino e olio probabilmente destinati all’esportazione nelle Cicladi, sigilli con impresse figure fantastiche. Passeggiamo a lungo, anche qui si respira il genius loci, intanto sotto un fico Christos sta insegnando ai periegeti i passi base delle danze popolari cretesi che a ben vedere, eseguiti lentamente, ricordano la danza delle gru.
Ci dirigiamo al mare, nella baia di Zakros. Molti ricordano il ristorantino pies dans l’eau dove si era fermato Plinio nella periegesi del 2007 e l’idea sarebbe di pranzare lì. Ma il messaggio non passa, qualcuno si ferma in un altro ristorante, qualcun altro va direttamente a fare il bagno. Alla fine si ritrovano Nora, Primo, Franco, Angela e Laura, poi sopraggiunge anche Concetta. La baia è molto bella, l’acqua invitante, alcune si concedono un bagno. Al momento di ordinare arriva di corsa Riccardo dicendo che dobbiamo essere in pullman di li a pochi minuti. Ci affrettiamo, qualcuno a digiuno e ancora un po’ bagnato.
Partiamo per Palaikastro, situata pochi chilometri a nord di Zakro, in particolare per il sito archeologico di Rousolakkos, una città dell’Età del Bronzo, abitata dal Primo al Tardo Minoico, posta sull’estrema costa orientale dell’isola e anch’essa dotata di un porto. Gli scavi condotti da archeologi britannici nel corso del XX secolo hanno portato alla luce resti di abitazioni e necropoli risalenti al Primo Periodo Minoico, simili a quelli trovati a Vassilki, Myrtos, Cnosso e Festo, edifici e anche torri di avvistamento del periodo Minoico Medio, proto-palaziale, edifici costruiti nel periodo neo-palaziale, in sostituzione di quelli crollati intorno al 1700 a. C, verosimilmente a causa di un terremoto, e a loro volta distrutti, forse da una serie di incendi, nel Tardo Minoico. Contrariamente a quanto avvenne nello stesso periodo nel resto dell’isola, tuttavia, a Palaikastro gli edifici superstiti furono immediatamente rioccupati e altri vennero riedificati o restaurati e alla fine del tardo minoico la città si espanse fino al mare, per poi essere abbandonata dopo la distruzione dovuta a un ennesimo terremoto. Inoltre, sempre diversamente da altre città minoiche, Palaikastro si sviluppa seguendo un piano preciso, che sembra stabilito da un’autorità centrale e si organizza in blocchi costituiti da quattro o cinque case ciascuno, identificati dagli archeologi con le lettere dell’alfabeto greco, beta, gamma e delta, attraversati da ampie strade lastricate, forse abitati da membri della stessa famiglia o da famiglie appartenenti a un clan. Non ci sono però tracce di un palazzo, forse per l’incompletezza degli scavi o forse perché il palazzo era in realtà a Zakros. Sono stati ritrovati anche cimiteri e ossari, con tombe per lo più a forma di casa, come più comune nel nord-est, mentre le tombe a tholos erano più diffuse al sud e anche larnakes, tombe individuali tipiche dei periodi Tardo Minoico e miceneo. Nei pressi è un santuario rupestre (Petsofas) in cui sono state trovate svariate figurine votive maschili e femminili in argilla che danno molte informazioni sul tipo di abiti e di acconciature dell’epoca, modelli votivi di varie parti del corpo e tavolette con iscrizioni in Lineare A. La grande quantità di oggetti recuperati dagli scavi testimoniano lo svolgimento di attività agricole, commerciali, ma anche di artigianato, soprattutto di lavorazione della ceramica, e tessile, come dimostrato dalla presenza di pesi da telaio. L’elevato livello sociale degli abitanti è testimoniato dagli affreschi murari, di cui rimangono solo pochi frammenti, e dalla qualità dei manufatti in pietra, metallo e avorio, mentre la presenza all’interno dei blocchi di un’ampia stanza con una depressione centrale circondata da pilastri e bacini lustrali, l’alto numero di bruciatori d’incenso, betili, rython e conchiglie di tritone attestano l’intensa attività cultuale del luogo. Tra i molti oggetti ritrovati – ceramiche in stile Kamares, figurine di argilla, una testa di bue, tazze, frammenti di corna di consacrazione, vasi, grandi contenitori di olio che, come già ipotizzato per il sito di Monastiraki, potrebbe aver favorito il propagarsi dell’incendio distruttore – il complesso di quattro figurine femminili in argilla, con lunghe gonne, tre con le braccia spezzate, ma si intuisce tenute distese lungo i fianchi, e una con serpenti avvolti intorno alle braccia, prive di copricapo, ma con il busto coperto da un corpetto; verosimilmente la figura con i serpenti era posta al centro e le altre le danzavano intorno tenendosi per mano. Ancora sono state trovate colombe in argilla, forate nella parte inferiore, forse per essere tenute appoggiate a pilastri di un santuario e tazze coniche, probabilmente applicate a un’ampia ciotola. Tutti questi oggetti, come anche la statuina del kouros, sono stati deliberatamente spezzati. Come non pensare a Keros?
Rousolakkos è un luogo importante per il mito. Qui sorgeva dall’VIII sec. a. C il santuario di Zeus Diktaion, il giovane dio secondo alcuni assimilabile al Dioniso della Grecia Classica e all’Osiris Egizio, nato sul monte Ditto e qui nascosto per sfuggire all’ira del padre Cronos, come emerge da frammenti di una iscrizione in Lineare B che riporta un inno composto probabilmente tra il IV e il III sec a.C in cui si supplica il giovane dio Zeus Diktaion affinché torni a Dikte, dove è eretto il suo altare. Ancora, qui gli Argonauti affrontarono Talos, il gigante di bronzo donato al re Minosse dal divino fabbro Efesto, che aveva versato nelle sue vene il sangue degli dei per dargli la vita. Secondo altri, Efesto lo avrebbe costruito per Zeus, che ne fece dono a Europa, ma altri ne attribuiscono l’ideazione a Dedalo. Il gigante percorreva l’isola lunga quasi 300 Km tre volte al giorno portando con sé le lastre di bronzo con incise le leggi di Minosse e vegliando sulla sicurezza del territorio, pronto a respingere gli invasori gettandosi contro le navi infuocato e quindi bruciandole o lanciando contro di esse enormi massi (qualche analogia con il colosso di Rodi e Polifemo?). Aveva però un punto debole, con le parole di Apollonio Rodio sulla caviglia “aveva una vena di sangue, una sottile membrana che per lui era la vita o la morte”. Fu urtando la caviglia su una roccia o trafitto nella vena dalla freccia dell’argonauta Peante – reso pazzo da Medea quando gli Argonauti giunsero a Creta – che Talos mori. Ci spostiamo nella vicina taverna Hiona, a Chiona Beach, dove su scogli in discesa sono sistemati in precario equilibrio accoglienti tavolini. Chi non ha fatto in tempo a pranzare a Zakros approfitta della sosta per uno spuntino, chi ha già provveduto…idem. Peccato mortale per i Periegeti tralasciare l’occasione di mangiare e bere.
Siamo all’interno dell’antico porto, le rocce riflettendosi nel mare conferiscono all’acqua un affascinante colore rosa. Ci intratteniamo volentieri in questo mondo senza tempo, poi di nuovo verso Sitia. Ci congediamo da Christos, l’autista che ha reso più lieta e leggera la seconda parte del viaggio, mostrandosi malleabile alle richieste del gruppo.
Ci ritroviamo poi verso le 19.00 in hotel nella sala della colazione, un luogo un po’ squallido, ma sembra l’unico adatto ad accoglierci. Si dovrebbe decidere dove andare a cena e se farlo tutti insieme, visto che è l’ultima sera a Creta. Il discorso però scivola sulla genealogia delle figlie del sole. Riccardo ci tiene veramente molto, non è facile conciliare la genealogia orfica e quella esiodea. Comunque possiamo stabilire con ragionevole certezza che Pasifae – “la splendente” in greco, “la regina” in cretese – è figlia del sole (Elio) e di Perseide, e sorella di Eeta e di Circe; quindi zia di Medea, figlia di Eeta; pertanto Medea e Arianna e Fedra (figlie di Pasifae) sono cugine.
Stremati, non abbiamo deciso nulla sulla cena.
Lunedi 9 settembre. È il giorno del ritorno o per passare una gradevole serata ad Atene. I taxi per l’aeroporto sono prenotati per le 12.30. Abbiamo tempo per una calma colazione, ultimi piccoli acquisti, una passeggiata sul lungomare nella mattinata più calda del solito e poi la riunione, questa volta sui divanetti di un locale dell’hotel destinato a fitness centre. Primo ci illustra la prossima periegesi, un’unica proposta che ovviamente viene votata all’unanimità, anche perché il giro dei santuari di Delos, Tinos, Andros e dell’Eubea si prospetta davvero affascinante.
L’impareggiabile Nora ha provveduto a che gli equipaggi fossero ben sistemati nei taxi e filiamo via verso l’aeroporto. Ancora un po’ di tempo insieme. Per scambiarci impressioni e qualcuna delle innumerevoli foto scattate. Ad Atene Laura prosegue per Roma e poi Firenze, il resto del gruppo si fermerà ad Atene
e ripartirà per Roma l’indomani.
Riccardo ne approfitterà per la rituale pompe’ a Eleusi, Cristina per assistere alle Ecclesiazuse di Aristofane al teatro di Erode Attico, gli altri si godranno, ancora una volta, la vista impareggiabile del Partenone.
Incredibile quante notizie, pensieri, emozioni, riflessioni in dieci giorni, un attimo, nella nostra vita quotidiana e un tempo magicamente espanso nella Periegesi.
Ci hanno accompagnato nel viaggio e le portiamo con noi le belle parole di Susanneti ne “Il tempo delle Muse” che riporta una citazione di Platone
Platone fece una volta un’osservazione preziosa “Affermare fino in fondo che le cose stiano esattamente così come le ho esposte non si addice ad un uomo intelligente…ma mi pare che convenga e valga la pena correre il rischio di crederlo perché bello è questo rischio. E bisogna con queste cose incantare noi stessi. Per questo da molto tempo mi dilungo su questi mito” (Fedone 114 d). Perciò anche noi per il tempo delle lettura proviamo ad affrontare questo rischio osservando se qualcosa in noi risuona e si trasforma. La relazione con l’antico, se ancora merita di essere attuata, deve diventare l’occasione di un esperimento con noi stessi”
e noi abbiamo sperimentato… e sperimenteremo…